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01 2011

Alla ricerca del Commonwealth

Antonio Negri

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1.

Dopo Empire e Multitude, molti problemi restavano aperti: inutile qui ridefinirli, così com’era stato inutile tentare di chiuderli. In effetti si trattava piuttosto di ripartire sulla base dei concetti che erano stati fissati, per approfondire la questione: che cos’è il politico oggi? Che cos’è la politica sovversiva, quale partage del sociale essa prevede? Come si puo’ combattere il capitale oggi? Solo andando avanti, di questo siamo convinti, i problemi irrisolti sarebbero stati affrontati con nuova forza. Avevamo tuttavia una convinzione, alla fine dei dieci anni di lavoro su Empire e Multitude – una percezione ormai matura – e cioè che la contemporaneità si fosse ridefinita, che fosse terminato il tempo nel quale la determinazione del presente potesse darsi sotto la sigla del post-. Avevamo senz’altro vissuto una transizione; ora, quali erano i sintomi della sua fine?

A noi sembrava che cio’ che era rimesso in discussione fosse soprattutto il concetto di democrazia. Nelle guerre americane, attraverso la forsennata propaganda che n’è stata fatta dai neoconservatori, il concetto s’è consunto, altre cose (che il concetto di democrazia non poteva più comprendere) sono emerse nel punto di vista della scienza politica. Per esemplificare, basti riferirsi a Rosanvallon e a quanto egli tenta di cogliere e qualificare nel suo ultimo libro (La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance): qualcosa di profondo se ne è andato – egli ci dice –  dalla repubblica, dal moderno comportamento delle popolazioni, ed è ora introvabile – è qualcosa di oscuro, che non riusciamo più a spiegare - è così che egli tenta di definire quei sentimenti di sfiducia e d’impotenza, quelle figure di depolitizzazione che configurano la democrazia contemporanea. Ed egli aggiunge – si sente che lo fa controvoglia – che la “democrazia politica” è divenuta una sigla dietro la quale si consolida ormai un “regime misto” nel quale la stessa contro-democrazia deve essere inclusa, una “democrazia di eccezione”.

Questo tentativo della scienza politica per fissare una sintesi su una realtà così incerta si ripete nella scienza economica. Qui lo sforzo è quello di reinventare non più una misura dello sviluppo, dal lungo tempo introvabile dopo la crisi della legge classica del  valore-lavoro, quanto una nuova convenzione efficace, essendo ormai riconosciuto che la convenzione liberale/liberista e quella fordista/keynesiana/welfarista sono in crisi. [Si comincia, ad esempio, a parlare sempre più spesso di “convenzione energetica”: che cosa precisamente significhi, nessuno lo sa bene - se non che essa (quando includa anche il nucleare, come spesso si dice) si oppone alla “convenzione ecologica”, e di conseguenza forse anche alla convenzione democratica. Al Gore sembra aver posto questo problema.]

Infine il tentativo di riflessione nella politica internazionale (e la ricerca della scienza politica globale): è oggi quello di reinterpretare la dimensione globale del potere in termini multilaterali dopo che l’unilateralismo americano (quanto restava cioè del vecchio imperialismo), sconfitto, è pervenuto ad una crisi profonda. [Si noti come le critiche che c’erano state rivolte –di non aver riconosciuto la continuità dell’imperialismo nell’azione globale del governo americano – siano ora demistificate. Infatti, dopo la crisi dell’unilateralismo, restiamo pur sempre dentro un ordine globale. Il riconoscimento dei suoi effetti (esaurimento dello Stato-nazione, dissoluzione del diritto internazionale, governance multilaterale di un mercato globale unico, ecc.) comincia ad esser concesso nella misura in cui gli attori storici sono obbligati ad agire dentro questa nuova realtà (che prima ipocritamente negavano). Il riconoscimento del nuovo ordine è dunque pratico piuttosto che teorico: ma effettuale!]

Dunque, abbiamo attraversato un lungo periodo di ambiguità e paradossi: il post-moderno è stato una cultura della transizione ed ha rappresentato, nelle figure dell’aleatorietà e dell’incertezza, alternative di una complessità irrisolvibile, interne a questo passaggio d’epoca. Oggi questo passaggio si è consumato. Una cesura si è definitivamente affermata. Con paradossali conseguenze: ad esempio, dentro l’insistita aleatorietà storica e la pretesa complessità dei sistemi, le ideologie di destra e di sinistra, lungi dallo scomparire, si sono sovvraposte, mescolate e confuse. La neutralizzazione del politico è passata attraverso il precipitare delle più diverse posizioni verso un centro estremo: un vero e proprio “estremismo del centro” è qui comparso. In ciascuna esperienza e luogo della democrazia, si cerca allora di consolidare un punto postideologico, un centro neutrale per poter uscire dal caos. Si può forse dire che, come al termine della rivoluzione rinascimentale  il Termidoro barocco e la Controriforma inventarono la sovranità (fra Machiavelli e Bodin), così oggi si cerca di inventare qualcosa di nuovo, utile ed adeguato alle nuove esigenze? Ma che cosa?

Per cominciare a metterci in situazione, per tentare di trovare una via sicura tra queste incertezze, queste cesure, e questi interrogativi, diciamo dunque che ripartiamo dalla contemporaneità - puramente  e semplicemente. La crisi è compiuta. E’ impossibile tornare indietro. Dobbiamo cominciare a muoverci dentro le determinazioni della nuova epoca, senza tuttavia mai dimenticare l’episodio del passaggio.

 
2
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Su che cosa riposa la determinazione oggettiva della nuova condizione storica? Attraverso e dopo la crisi dell’ordine moderno? Ecco un primo movimento di analisi.

Nella prospettiva della critica dello Stato, il punto consiste nel fatto che la sintesi sovrana è in crisi. Che la crisi sia definitiva è mostrato dal farsi precario, meglio, dal deficit del meccanismo deduttivo della legge, così come è stato definito dalla modernità giurisdizionale, dal costituzionalismo ottocentesco, e dalle teorie dello Stato di diritto (o Rule of Law). Sia nelle forme dure, continentali, sia nelle forme giurisprudenziali, atlantiche, queste pratiche sovrane non riescono più a costruire e a garantire il governo del concreto. Legittimità ed efficacia del diritto si distanziano.

Il modello weberiano che considera la sovranità/legittimità dal punto di vista razionale-funzionale è esaurito. Il tentativo ipermoderno di restaurare logiche strumentali per il governo del concreto è anch’esso incapace di conclusioni sensate. Il fatto è che il governo del concreto non è più quello che era per il costituzionalismo e per l’azione aministrativa “moderni”. Il concreto non è il termine individuale di una decisione giuridica, ma una rete consistente e vivente - biopolitica, puo’ dirsi - ed agire su di essa significa raccoglierne l’attività. Un tempo l’atto giuridico s’imponeva al reale; ora l’atto giuridico si confronta, si scontra, si riforma a contatto con la realtà biopolitica.

Secondo i costituzionalisti e gli amministrativisti più attenti (ad esempio Luhmann, Teubner etc. – ma anche secondo i giuristi che agiscono nei campi più aperti come quelli del diritto del lavoro e/o degli affari, sia interni che internazionali) l’azione giuridica non potrà più svolgersi in termini deduttivi, essa consiste piuttosto, sempre di nuovo, nella soluzione di un conflitto singolare la cui forma la dogmatica tradizionale non prevede, e quindi nella determinazione di una mediazione provvisoria, di un dispositivo transitorio. Il concreto è scisso, non vi è più attività di governo che possa darsi in maniera lineare. Si dà solo governance. Attenzione: quando si parla di governance, ci si muove su un terreno minato. La governance non è di per sé uno strumento democratico – è piuttosto un dispositivo manageriale. Ciò che apre questa macchina alla democrazia è un uso adeguato agli interessi democratici, quindi un esercizio democratico di forza che si opponga efficaciamente ad un altro esercizio di forza (eventualmente orientato in termini non democratici). L’importanza di questo strumento (e la sua eventuale apertura democratica) non deriva da natura ma dalla consistenza sociopolitica degli attori. A questo punto, i costituzionalisti arrivano talora fino ad introdurre il concetto di un “costituzionalismo senza Stato”, ovvero la pratica di una ridefinizione permanente e continua del diritto soggettivo, del diritto delle parti, ed in genere delle convenzioni di accordo. Se si è meno ottimisti, occorre comunque ormai riconoscere che la vecchia concezione del diritto e la nuova consistenza biopolitica del reale, fanno a pugni. Ogni soluzione riporta al biopotere – ma questo è senza misura, dunque è capace solo di eccezione, e allora le istanze biopolitiche insorgono ed effetualmente propongono alternative.

L’UNO SI E’ DIVISO IN DUE: ecco un buon primo paradigma della contemporaneità. Dire questo, non è dire “no al molteplice”. Il paradigma implica solo la capacità (e forse la forza) di interrogarsi se attraverso ogni terreno di pluralità giurisprudenziale e di articolazioni costituzionali non stia formandosi ormai un altro orizzonte: quello sul quale consistono nuovi “poteri costituenti” - un terreno dunque sul quale la definizione classica del potere costituente come potere originario, extragiuridico, venga abbandonata, in favore di una concezione giuridica del potere costituente come potenza interna all’ordinamento ed insieme indefinitivamente. Questo è un punto centrale, in Commonwealth, di definizione della contemporaneità politica. Vedremmo più tardi come il concetto stesso di rivoluzione debba chinarsi a questo rinnovamento del potere costituente, ed alla sua definizione di “fonte interna del diritto”, quindi alla possibilità che esso agisca all’interno delle costituzioni, cioè del potere costituito, in maniera instancabile. Per altro verso, si potrà qui dire che la temporalità è reinserita in maniera centrale nella definizione del diritto.

 
3.

Approfondiamo la determinazione oggettiva della nuova condizione contemporanea, apriamo - per così dire - un suo secondo movimento. Abbiamo fin qui seguito il realizzarsi della transizione dal punto di vista politico-istituzionale: crisi della sovranità, governance, ridefinizione del potere costituente. Ora dobbiamo porre il problema dal punto di vista del lavoro, della sua organizzazione, dei rapporti di forza che la attraversano.

Chi produce?  Nella contemporaneità é la macchina della moltitudine. La produzione è sociale. La forma egemone del lavoro produttivo è il lavoro cognitivo. Siamo definitivamente a fronte di una nuova sequenza: lavoro vivo, lavoro cognitivo, produzione cooperativa (ovvero cooperazione sociale), tessuto biopolitico della produzione ecc. ecc. Il rapporto tra “composizione tecnica” (CT) e “composizione politica” (CP) della forza-lavoro, si è straordinariamente trasformato e complicato. Un tempo la CT costituiva la potenzialità, spesso solo virtuale, talora reale, di una CP adeguata. Ora, nella contemporaneità, nel regime del lavoro cognitivo, virtualità e potenzialità sono implicate reciprocamente nel rapporto e ne costituiscono  natura e dinamica. CT e CP, piuttosto che corrispondersi, piuttosto che determinare isomorfismi, si ibridano, si meticciano. Vi era una certa dialettica, per esempio, nelle narrazioni operaie del rapporto storico fra classe (CT) e partito (CP), che si realizzava nella lotta di classe (con i suoi alti e bassi puntuali ma soprattutto nelle sue dimensioni cicliche). Ora, nella attuale condizione biopolitica, questa dialettica non c’è più – o molto meno. Il tessuto biopolitico confonde il rapporto fra CT e CP, ma nel momento stesso lo estende, ne rompe quella dipendenza dall’organizzazione industriale sulla quale, con grande efficacia, ancora si esercitava il comando capitalistico diretto.

Tenute presenti queste osservazioni, eccoci in grado di cogliere il momento della crisi: nella  grande trasformazione in atto, il comando LASCIA FUORI LA NUOVA FIGURA DEL LAVORO VIVO. Questo infatti si è singolarizzato nel biopolitico e si socializza ormai indipendentemente dall’organizzazione capitalistica del lavoro. Eccoci davanti ad un secondo paradigma della contemporaneità.

Nel momento stesso nel quale il capitale sussume interamente la società, in quanto biopotere, in quello stesso momento il processo d’inserimento della forza lavoro nel capitale si svela in maniera intera e la disgiunzione della forza lavoro dal capitale si radicalizza. Il lavoratore esprime la sua capacità biopolitica e produttiva dentro l’intero circuito della produzione sociale; qui i corpi divengono socialmente attivi e l’anima si materializza nel lavoro produttivo; di conseguenza, è l’intero che dà senso al contributo lavorativo singolare, così come, dall’altra parte, è il contributo linguistico singolare che dà significato all’intero linguistico. Capitale e forza-lavoro si  giocano interamente nel bios, ma qui, appunto, capitale e lavoro si disgiungono anche come sistema di biopoteri contro tessuto/potenza biopolitici.

Di conseguenza, il lavoratore non si trova più davanti il capitale, se non nella forma più indiretta ed astratta, di rendita, come il capitale cioè che moltiplica l’espropriazione sul livello più generale, territoriale, oppure nella figura finanziaria, cioè come espropriatore dell’intera valorizzazione sociale del lavoro in termini monetari. Guardato da questo punto di vista – a fronte della relativa dipendenza che il lavoro cognitivo e socialmente cooperativo ha assunto - non è più il profitto, solamente, ma il profitto trasformato in rendita, quello che il lavoratore si trova dinnanzi - cioè egli si trova dinnanzi non più solo il capitalista individuale come organizzatore dello sfruttamento ma il capitalista collettivo come mistificatore finanziario del lavoro sociale.

Così come Marx aveva parlato del “socialismo del capitale” in riferimento alla nascita delle società per azioni, così noi oggi possiamo proporre metaforicamente una specie di “comunismo del capitale” laddove il capitalismo produce l’assoluta mistificazione di una valorizzazione che (visto quanto si è detto precedentemente) è immediatamente comune, e che sfrutta direttamente la partecipazione sociale alla valorizzazione (sfrutta cioè la socialità del lavoratore).

Si puo’ aggiungere un’ulteriore domanda: in  maniera parassitaria? Forse. Quello che è certo è che se il capitale sfrutta e mistifica la ricchezza comune, non ne organizza comunque più il processo produttivo. Il capitale continua a presentarsi come potere, e  poiché la produzione è immersa nella vita, come biopotere. Lo sfruttamento passa dunque oggi attraverso l’organizzazione sociale dei biopoteri. Che quest’ultima sia parassitaria o meno, fa poca differenza.

Ma a questa riflessione attorno all’autonomia del soggetto produttivo, vanno aggiunte – ed è quanto facciamo in Commonwealth - altre riflessioni attorno all’autonomia del soggetto resistente. Vogliamo brevemente qui introdurre un altro argomento che se era già stato parzialmente sviluppato, non lo è stato tuttavia sufficientemente - la sua relativa assenza nel nostro lavoro passato c’è stata non solo giustamente addebitata in negativo ma denunciata come un limite sostanziale della ricerca. Non credo che le cose stiano così. Mi permetto infatti di far notare che per  aggiungere al nostro lavoro (di Empire e di Multitude) quel “capitolo che mancava” sulla “colonialità” del potere (perché era questo cui evidentemente si alludeva), occorreva prima aver scavato e ritrovato la verità di una consistenza e di un movimento non identitari delle lotte anticoloniali dei soggetti in esse attivi. Occorreva dunque passare non solo attraverso le teorie del post coloniale, ma attraverso le pratiche emancipative e liberatorie dei popoli colonizzati e dei movimenti politici di liberazione nella continuità non regressiva del loro sviluppo. La ripresa della lezione di Frantz Fanon fu per noi essenziale a questo proposito. Ma non solo: il contributo dato a questo passaggio dal movimento zapatista è stato fondamentale, proprio perché esso ha evitato ogni insistenza sulla identità, ha tolto ogni equivoco sulle alternative nazional-popolari, ha illustrato l’ambiguità talora semplicemente reazionaria di talune teorie indigeniste, ed ha invece insistito sulle potenzialità costituenti che dall’accumulazione di resistenza provenivano. Ripetendoci: quella revisione che noi dovevamo fare, era senz’altro possibile, se non facile, accennarla da un punto di vista storiografico – sarebbe stato invece impossibile condurla all’intensità di un lettura teorica, di una proposta politica,  finché i movimenti di resistenza anticoloniale e la  consistenza democratica dei processi di liberazione da essi sviluppati non ci si fossero mostrati con i caratteri della contemporaneità. La teoria segue il reale. Non è dunque l’identità ma la resistenza costituente che testimonia il successo della marcia della libertà. Le teorie post coloniali, per trovare legittimità, debbono andare oltre l’ermeneutica delle lotte passate ed indicare, ben oltre l’archeologia, la genealogia e il corso della rivoluzione presente. E’ quello che sta avvenendo, ed è ciò che ogni teoria rivoluzionaria della trasformazione nella contemporaneità deve assumere come metodo. Con cio’ vengono documentate, un’altra volta, l’autonomia ontologica della moltitudine, la continuità e l’accumulazione della produzione di soggettività, e l’antagonismo irriducibile della potenza biopolitica contro il biopotere – nel caso, il biopotere coloniale. Quel soggetto che è riuscito  a resistere alla colonialità del potere attraverso un’esperienza singolarissima di esodo (distanziazione continua dal colonizzatore, eventuali tattiche ed episodi d’ibridazione, insistenti insurrezioni ecc.) – bene, questo soggetto si mostra sempre più come forza costituente.

Così si completa quella topografia oggettiva che mostra, in Commonwealth, gli ostacoli insuperabili alla stabilizzazione del potere capitalista nella contemporaneità.

N.B. Dal punto di vista filosofico, qui sopra nei paragrafi 2. e 3., sperimentiamo ed elaboriamo l’impossibilità del capitale di chiudere - nella contemporaneità, a fronte del lavoro vivo, cognitivo, e della resistenza post-coloniale - il processo di sfruttamento, cioè la realizzazione stessa del dominio capitalistico. Qui la fine della dialettica non è più un’istanza astratta, ma una determinazione fenomenologica. Ne viene che, con l’irreversibilità di questo passaggio, si fissa il nuovo orizzonte della soggettività nel presente: la singolarità è contingenza, differenza, autonomia, resistenza e quindi potenza costituente.

 
4.

Occupiamoci ora dei dispositivi soggettivi della nuova condizione politica nella contemporaneità: ecco un primo movimento.

L’attività sul terreno biopolitico si rivela come produzione di soggettività. Ma cosa significa produzione di soggettività? Date le condizioni fin qui definite, produzione di soggettività è espressione di forme di vita e, attraverso queste, processo di produzione e di valorizzazione del comune. Abbiamo infatti visto che la produzione di forme di vita, oggi, non può darsi che nella dimensione del comune. Solo il comune, infatti, è la forma/contenuto dell’azione costituente. Nulla si costituirebbe senza che il comune desse senso alle singolarità e le singolarità  significato al comune. Ma se produzione di soggettività è questo, e cioè valorizzazione del comune della vita, dell’insieme delle forme di vita (che passa attraverso l’educazione, la sanità, la pace sociale, la sicurezza del salario e della riproduzione, l’urbanità e tutto il resto), allora la produzione di soggettività apre anche ad un terreno di contestazione dei biopoteri, cioè del tentativo del capitale di sussumere e di sfruttare i prodotti comuni della vita. L’antagonismo fra biopotere e potenze biopolitiche si apre dunque qui e, tendenzialmente, la produzione di soggettività si definisce allora come esodo dal capitale. E’ azione biopolitica che esoda dalle articolazioni dei biopoteri.

Possiamo allora definire l’ESODO COME PROCESSO DI RIAPPROPRIAZIONE DEL COMUNE?

Mettiamo in movimento una macchina spinozista. E’ noto come in Spinoza, la produzione di soggettività (ovvero lo svolgersi del processo che conduce dal conatus sensibile all’amor razionale) tenda a presentarsi come produzione del sociale. Ma in Spinoza vi è qualche cosa di più: vi è cioè trasformazione del sociale in comune. Vale a dire che quella produzione di soggettività, che integra ed arricchisce la produzione cooperativa del sociale, può divenire produzione del comune, quando imponga al suo interno una gestione democratica radicale della società.

A fronte di questa spinoziana produzione del comune (che, nel moderno, costituisce un’alternativa interna e potente), occorre qui ricordare come vennero formandosi nel moderno le categorie egemoni del privato e del pubblico. Queste categorie furono costruite sul concetto di lavoro. In Locke infatti la definizione del privato è definizione dell’appropriazione singolare del lavoro compiuto dall’individuo: il privato è il “proprio” che si consolida in forma giuridica, è la proprietà privata.

Quanto al concetto di pubblico, anch’esso, nella cultura del moderno, si muove dentro i medesimi parametri. E’ un paradosso ma non per ciò meno efficace: il pubblico aliena il “proprio” per garantirne la consistenza. Alla base del concetto di pubblico sta dunque ancora il concetto di “proprio”. La mistificazione del moderno riposa dunque sulla riproposizione quasi permanente di due termini che corrispondono a due maniere di appropriarsi il comune degli uomini. La prima è il ricorso alla categoria del “privato”, il secondo è il ricorso alla categoria del “pubblico”. Nel primo caso, la proprietà – Rousseau dixit: il primo uomo che dice <<ceci est a moi>>… - è un’appropriazione del comune da parte di un individuo, vale dire un’espropriazione di tutti gli altri. Oggi la proprietà privata consiste nella negazione del diritto comune degli uomini su ciò che solo la loro cooperazione è capace di produrre. Quanto alla seconda categoria, quella del pubblico, il buon Rousseau, (tanto duro nei confronti della proprietà privata da farne la sorgente di ogni corruzione e sofferenza umana) perde la testa. Problema del contratto sociale – problema della democrazia moderna: poiché la proprietà privata genera inuguaglianza, come inventare un sistema politico dove tutto, appartenendo a tutti, non appartenga a nessuno? “Non appartenga a nessuno”: ecco dov’è il pubblico. Ciò che appartiene a tutti ed a nessuno, vale dire ciò che appartiene allo stato. Ma lo stato non è ciò che noi produciamo in comune, che inventiamo e organizziamo come comune. Lo stato ci rinvia alla nostra identità e alla nostra natura, raccogliendo a questi il concetto di comune. Così il comune non ci appartiene più – essere infatti non è avere -  la manomissione dello stato sul comune, che si chiama gestione pubblica, delega, rappresentanza pubblica, è in realtà la creazione e la giustificazione di un’altra forma di alienazione.

Insomma, il pubblico si basa ancora sul “proprio” rendendolo generale, si basa sull’Uno come assemblaggio organico d’individui. Il pubblico è l’identità del privato, e così penetra esso stesso l’ideologia liberale nelle sue figure più spesse e tradizionali.

E’ contro il privato (e quindi contro la sua sussunzione pubblica) che si solleva il concetto di comune come dispositivo di una gestione democratica radicale di tutto cio’ che costituisce il tessuto dell’attività sociale e cioè la reciprocità degli individui, la cooperazione delle singolarità, e le libertà dei produttori. Il comune è negazione del “proprio” attraverso il riconoscimento che solo la cooperazione delle singolarità costituisce il sociale e che solo la sua gestione comune  ne garantisce il continuo rinnovamento.

E’ chiaro che qui il riformismo politico tradizionale (che implica un’idea di riappropriazione progressiva della ricchezza da parte degli individui e/o dei gruppi, e conseguentemente una mediazione continua nei rapporti di capitale) non ha più luogo né opportunità. Siamo ormai immersi in una nuova condizione. Un nuovo metodo s’instaura conseguentemente su questo terreno: è quello della “marcia della libertà”. Questa marcia si basa su, ed è articolata da, dispositivi biopolitici per la costruzione del comune: è un progetto rischioso ma ontologicamente determinato. Nulla ci garantisce che questo processo possa svilupparsi, se non il continuo pressante impegno militante e costituente che le soggettività, la moltitudine delle singolarità mettono all’opera. La stessa definizione dell’ “essere moltitudine” - ed implicitamente del “fare moltitudine”-  si confronta qui alle difficoltà (ma anche, ovviamente, alla potenza) della costruzione del comune, della sua produzione.

Qui si apre un ulteriore problema: è quello di comprendere come a vari gradi, l’indipendenza del lavoro vivo si articoli con la dipendenza che esso tuttavia effettualmente continua a subire nella fase di transizione. Ma non eravamo già oltre la transizione? Certo. Non però di quella transizione rivoluzionaria che vede il potere costituente del lavoro vivo, il suo esodo, misurarsi in un’opera di metamorfosi ontologica. Continuità e discontinuità debbono allora, sempre di nuovo, essere definite. In fondo, quando parlavamo dell’ibridazione di “composizione tecnica” e di “composizione politica” del proletariato di oggi, e dell’impossibilità di descriverne una concatenazione lineare o delle corrispondenze isomorfiche,  già alludevamo a questi processi di metamorfosi. Ma qui bisogna essere più precisi e sottolineare che, dal punto di vista dell’agire politico, questo passaggio è cruciale. L’esodo non è solo distanziazione ma anche attraversamento, e la distanziazione spesso si costruisce dentro l’attraversamento – l’esodo è sempre transitivo, meglio transizionale, e tanto più lo è quanto più è costituente. Tutto questo va visto sulla base di quanto abbiamo fin qui affermato e cioè dell’irreversibilità ontologica dei percorsi moltitudinari del lavoro vivo nella contemporaneità e nel processo di costruzione del comune che essa prevede.