02 2019
Le ecologie che curano 1 - Praticamente un manifesto
Traduzione di Alisea Neroni
Praticamente un manifesto
Se non fosse così lungo, questo testo potrebbe essere (vorrebbe essere) un manifesto. Di certo non è un saggio analitico che reinterpreta un luogo, né una storia critica del movimento portato avanti da Franco Basaglia. È più che altro una deriva, un itinerario non programmato e costellato di riflessioni, eventi, oggetti in cui mi sono imbattuto durante la mia esperienza di ricerca all’interno del sistema sanitario triestino. È il risultato di un lungo rapporto con le soggettività che abitano e costruiscono questo sistema ogni giorno, con le memorie di una pratica collettiva di cura, con gli artefatti e i luoghi che costituiscono la possibilità materiale di una pratica di cura reciproca, un legame con quella che Franco Rotelli (2013, Cogliati 2018), uno dei protagonisti della traiettoria triestina e direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste negli anni ‘80 e ‘90, ha chiamato una città che cura.
Durante la ricerca mi sono concentrato principalmente su due questioni. Questo articolo costituisce infatti innanzitutto un tentativo di contribuire alla critica (e alla reinvenzione) dell’analisi istituzionale, presentandola come una ecologia: per dirlo con Donna Haraway (2016), una pratica di organizzazione “dentro alle difficoltà”, anziché diagnosi esterna dei problemi altrui o esercizio autonomo lontano dalle contraddizioni della realtà. Un’ecologia si rapporta al tempo in modo diagrammatico, non lineare, e istituisce una relazione tra le dinamiche sociali e l’immaginario politico come concreta esplorazione in costante tensione con il presente, com’è e come si vorrebbe che fosse.
La singolarità dell’esperienza triestina, cominciata nel tumulto generale degli anni ‘70, si colloca oggi all’interno della cornice dei modelli contemporanei di governance europei (in particolare quelli del Mediterraneo): lo smantellamento dello stato sociale ha influito infatti non solo sulla fornitura dei servizi, ma in generale sulla legittimità che hanno le politiche pubbliche nel prendersi cura della società. E la realtà triestina non sfugge a questo scenario. La rivoluzione di Basaglia è ormai calata nelle condizioni di precarietà e austerità del nostro presente, immersa in un terreno difficile fatto di privatizzazione e controriforma istituzionale, costretta a fare i conti con le conseguenze dell’approccio neoliberista alla cura in quanto progetto di individualizzazione degli affetti e mercificazione delle vite.
Le scelte delle generazioni precedenti costituiscono gli spazi di possibilità che abbiamo di fronte a noi. E oggi questo spazio è quello del collasso dello stato sociale. Viviamo in un mondo danneggiato: il passato insiste sul presente e il contemporaneo si addensa lungo il ciglio precario della modernità, nella crisi del paradigma che annunciava (prematuramente, ancora una volta) la fine della storia. Per sfuggire alla trappola delle alternative infernali (Stengers e Pignarre, 2011) e non dover scegliere tra la distruzione del welfare guidata dal mercato e il paternalismo verticale portato avanti dallo stato, cercherò di istituire uno spazio di narrazione e affabulazione che possa, almeno spero, spingere la singolarità di Trieste, come pratica di concreta immaginazione, al di là dei propri confini.
La seconda questione a cui mi dedico è il ruolo della cura nella costituzione dell’organizzazione sociale in quanto ecologia. Le riflessioni contemporanee sulla cura sono molteplici, e a volte contraddittorie: si tratta infatti di una categoria ampiamente discussa nell’analisi critica della riproduzione sociale, ma che ha anche assunto un ruolo ormai onnipresente nel marketing moralista e nella governance neoliberale, segnando, come lo chiama Maria Puig de la Bellacasa, un “ordine pervasivo di moralità biopolitica individualizzata” (2017). Consapevole di questo secondo significato, cerco comunque di star dentro ai dibattiti critici e di prendervi parte, con un’attenzione particolare agli spazi plurali dei femminismi, che hanno costruito, da almeno cinquant’anni a questa parte, una interpretazione complessa della cura.
Quello della cura è un territorio ambivalente. Da una parte, infatti costituisce una questione cruciale ai fini dell’analisi delle forme contemporanee del capitalismo come macchina micropolitica e biopolitica che organizza la riproduzione sociale: la cura è parte del continuo processo sociale di sfruttamento, espropriazione, e astrazione (Barbagallo, 2016; Federici, 2013; Fraser, 2016), in particolare (ma non solo) al di fuori di quella che Sraffa chiama la produzione di merci a mezzo di merci. Dall’altra parte, la cura è uno spazio di autonomia e organizzazione capace di istituire nuovi terreni di possibilità dentro e contro i processi di annientamento innescati dal capitale (bell hooks, 2009; Precarias a la Deriva, 2004)
Nel bel mezzo di questa tensione, recentemente sono state coinvolte nell’analisi della cura nuove concatenazioni, dinamiche, nuovi agenti, che intrecciano i processi geopolitici e l’articolazione di razza, genere e classe nei cicli di produzione sociale che la cura, ontologicamente, sostiene. Inoltre, l’analisi critica della cura si confronta oggi con dimensioni più che umane e più che sociali: ai margini di altri mondi, la cura si dà nella sensibilità attiva delle cose, ma anche in un presente sempre più urgente, in bilico tra sostenibilità e catastrofe (de la Bellacasa, 2017).
Sull’onda di questi dibattiti e approcci molteplici, cercherò di trovare un altro equilibrio, sul confine lungo il quale l’analisi istituzionale si incontra, da una parte, con le complessità e le singolarità della cura, cioè con i processi molecolari che ne configurano il funzionamento materiale, e dall’altra con la logica di organizzazione che riproduce la razionalità istituzionale, cioè con le linee molari che ordinano l’istituzione. Per dirla in termini più concreti, cerco di ‘stare con la cura’ laddove questa si interseca con una critica istituente della cittadinanza.
Storicamente, la cittadinanza industriale e il welfare sociale hanno costituito l’orizzonte utopico delle lotte del ventesimo secolo (dei lavoratori maschi e bianchi): l’obiettivo era un’immagine omogenea della società civile organizzata attraverso lo stato-nazione. Il movimento basagliano ha dato vita a un’altra concezione del cittadino, partendo da quella che era allora una negazione istituzionale della cittadinanza del matto, e ripensando la questione della cittadinanza attraverso le lenti della singolarità e della fragilità.
Allora, forse, oggi la questione della cittadinanza può diventare qualcos’altro: come possiamo produrre una pratica quotidiana di democrazia all’interno della situazione attuale? Come possono i matti (noi, matti), spesso fuori da (ma, allo stesso tempo, sempre dentro) la nostra società, affermare i propri diritti sociali, politici e civili, senza rimanere intrappolati nel doppio vincolo di esclusione e normalità? In che modo lo stato sociale può sostenere la libertà costitutivamente difficile di ogni singolarità nella vita urbana, senza necessariamente costituire e normalizzare il cittadino come un’identità omogenea, autorizzata e solo per questo riconosciuta come portatrice di diritti?
La cittadinanza, in altre parole (in quelle delle Precarias a la Deriva cui-dadania, 2004, un gioco di parole che potremmo cercare di tradurre come cura-dinanza[1]) ruota intorno al ruolo della cura nel dar forma alla vita urbana e sociale. A Trieste, questa questione era inizialmente articolata in due modi: come problema istituzionale, cioè come smantellare la tendenza istituzionale ad oggettivare la socialità; e in quanto sfida istituzionale, cioè come inventare pratiche trasformatrici all’interno delle istituzioni, capaci di sostenere la libertà di chi vive un momento di fragilità.
La deistituzionalizzazione era una pratica intesa a rivendicare l’alter-soggettivazione contro la modalità oggettivante dell’istituzione totale: un’oggettivazione che non colpiva solo i corpi confinati degli internati, ma anche quelli dei lavoratori come addetti all’oppressione. L’oggettivazione della psichiatria d’altronde non è altro che il punto limite della tendenza che hanno tutte le istituzioni a riprodurre se stesse e il loro potere sulla società, quando invece dovrebbero sostenere la riproduzione sociale (e l’invenzione permanente, Rotelli, 1988) dei mezzi collettivi, organizzati per rispondere ai desideri sociali (come Gilles Deleuze, 2004, definisce, più o meno, un’istituzione).
A Trieste, questa pratica di cittadinanza come emancipazione si è articolata nella dimensione molare, attacco all’ordine dell’istituzione: attraverso i movimenti sociali, la critica alla medicina, le campagne mediatiche, i processi legali e i conflitti urbani, come pure attraverso la regolamentazione legale e la produzione istituzionale, e un lungo eccetera di strategie volte a difendere questa invenzione. Allo stesso tempo, questa pratica, in quanto progetto di cura che coinvolge utenti e cittadini all’interno delle politiche molecolari della cura, è stata, e continua ad essere, un esperimento che ha come oggetto una comprensione radicale della cittadinanza.
Nel tentativo di contribuire a questo esperimento, mi addentro perciò in questa ecologia della cura (o ecologie che curano, poiché la cura è un processo, ed è sempre plurale). Ecologia della cura significa dunque fare cura (e fare senso) attraverso i processi sempre irrisolti e imprevedibili della riproduzione sociale; fare cura nella composizione di differenti processi di trasformazione soggettiva; fare cura “con ciò che ci circonda” (Stengers, 2013, ma anche Harney e Moten, 2013, o Deleuze e Guattari, 1988), cioè riconoscendo l’interdipendenza tra la cura e l’organizzazione sociale, mentale e ambientale della vita quotidiana.
Le ecologie che curano si muove dentro le tensioni e composizioni vive della cura, insieme, attorno, e spesso fuori dalle pratiche istituzionali. Usando Trieste come terreno per questa immaginazione concreta, dedicherò le prossime pagine a ipotizzare l’ecologia della cura come assemblaggio di concetti, materialità, relazioni ed esperienze.
Trieste, città libera?
Questa storia è ambientata in un luogo del tutto particolare, Trieste. Nel corso del ventesimo secolo, Trieste è stata molto spesso la frontiera con l’ignoto: l’estremo della crisi dell’Impero Austroungarico dopo la Prima Guerra Mondiale, la frontiera dell’espansione del regime fascista italiano; l’ultima lembo di ‘democrazia’ occidentale sull’orlo della cortina di ferro.
In effetti un confine, Trieste, lo è stata per secoli: come luogo di scambio globale e di apertura culturale tra religioni, comunità, civiltà. La caduta dell’Impero Austroungarico e l’annessione all’Italia causarono il collasso della città come polo finanziario, nonché la crescita di conflitti identitari tra italiani, slavi e altre etnie nella città. A partire dagli anni ‘50, ondate di ricollocamenti dalla Jugoslavia diedero un contributo fondamentale allo sviluppo delle acciaierie e di altre industrie. Dopo la crisi industriale degli anni ‘80 e la caduta della cortina di ferro, Trieste visse una lunga crisi economica e ambientale resa ancor più difficile dalla realtà demografica di una popolazione che continua ancora oggi a invecchiare.
In questo luogo di inerzia, il movimento basagliano è stato protagonista, a partire dalla fine degli anni ‘60, di una spaccatura plurale e globale. Questa storia inizia nel 1961 nella città di Gorizia, dove Franco Basaglia e la sua equipe trasformarono il manicomio in una comunità terapeutica, allo stesso tempo questionando la relazione di potere radicata nelle loro stesse pratiche di riforma istituzionale. Nel 1968, diventata impossibile la collaborazione con l’amministrazione provinciale, Basaglia rassegnò le proprie dimissioni. Già nel 1964, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (Basaglia, 1964) definiva nuovi contorni per una psichiatria critica e radicale, che comprendevano un’autocritica dello stesso paradigma di comunità terapeutica che si stava sperimentando.
Prendendo spunto dai dibattiti della fenomenologia, Basaglia poneva una distinzione fondamentale tra l’esperienza del disagio mentale e momentaneo di una persona, e dunque bisognosa di cura, e la istituzionalizzazione, che egli identificava come il principale dei problemi. Bisognava prima di tutto smantellare e trasformare il ruolo drammatico e violento della psichiatria (e della medicina) nei processi di cura.
Nel manicomio tradizionale, quello della frenologia, la psichiatria era una pratica di violenza la cui legittimità era radicata nella comprensione totalitaria della relazione tra stato e società, come propongono Basaglia e Franca Ongaro (1987). In questo quadro, la cura è impossibile (e diventa una pratica di repressione e controllo). Fu la scoperta e l’utilizzo di nuovi approcci farmacologici dopo la Seconda Guerra Mondiale che permise invece a Basaglia di affermare un rifiuto radicale dei mezzi tradizionali del manicomio, e di proporre nuovi approcci alla cura. In questa nuova cornice farmacologica, istituzionale e politica, la deistituzionalizzazione, la psicoterapia istituzionale, la psichiatria radicale e l’antipsichiatria, l’etnopsichiatria e simili, prima in Inghilterra e in Francia, e successivamente in Italia, Germania, Spagna e Brasile ottennero una nuova centralità.
Originatosi sulla scia delle pratiche critiche istituzionali di John Connolly e altri psichiatri alla fine del diciannovesimo secolo, questo dibattito si è poi sviluppato intorno alle esperienze di Saint Alban e La Borde in Francia, dell’Ospedale Militare di Northfield, della pratica anti-psichiatrica di Kingsley Hall e dell’Associazione Philadelphia nel Regno Unito, così come intorno a quelle del movimento anti-istituzionale italiano, specialmente a Trieste, Trento e Reggio Emilia. In Italia, alcuni delle voci più importanti di questi dibattiti furono quelle di Franco Basaglia, Franca Ongaro, Mariagrazia Giannichedda, e Franco Rotelli. Molto significative sono state e sono tuttora anche le pubblicazioni di Giovanni Jervis, Mario Tommasini, Assunta Signorelli, Giovanna Del Giudice, Giovanna Gallio, Mariagrazia Cogliati, Peppe Dell’Acqua. Allo stesso tempo, pensatori quali Michel Foucault, Mony Elkalm, Robert Castel e artisti come Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Dario Fo e Franca Rame, tra i tanti, allargarono lo spazio per la critica oltre la psichiatria.
C’erano e ci sono molti personaggi coinvolti, ma, tra tutti, a rendere effettivamente possibile questa nuova pratica di cura a Trieste, sono state soprattutto le persone: gli utenti, gli infermieri, i medici e i cittadini. Una nuova generazione che, intendendo il manicomio come uno spazio di sperimentazione e discussione, lo ha attraversato a partire dagli anni ‘70: centinaia di volontari, artiste, attivisti e studentesse che, nel corso degli anni ‘70 e ‘80, hanno plasmato una immaginazione concreta e collettiva della libertà e della emancipazione come terreni per la cura. Insieme queste persone, alleate, parti e controparti dell’amministrazione istituzionale, hanno immaginato e sostenuto un’intrusione istituzionale che ha portato a un nuovo approccio alla salute mentale, e hanno anche guidato un’invasione capace di resistere ai contrattacchi conservatori e alla restaurazione dei modelli tradizionali.
Qualche dato storico per inquadrare le mie riflessioni sulle ecologie che curano di Trieste: nel 1971 Franco Basaglia fu nominato Direttore del Manicomio, e gli fu affidato il mandato politico dal presidente della provincia, il democristiano Michele Zanetti, affinché l’Ospedale Psichiatrico fosse chiuso per sempre. C’erano 1300 ricoverati a Trieste al tempo; in Italia, le persone internate erano più di centomila. Dopo un profondo sforzo sociale, medico, politico e mediatico, nel 1978 venne approvata una legge che predisponeva una riforma strutturale per vietare la reclusione e riconoscere l’inalienabilità dei diritti civili, sociali e politici degli utenti. La norma definiva un protocollo per lo smantellamento di tutti gli ospedali psichiatrici e per l’istituzione di servizi locali e comunitari, così come di reparti psichiatrici negli ospedali generali.
Tuttavia, in questi dibattiti e pratiche, la deistituzionalizzazione non era intesa come esercizio di riforma che avrebbe stabilito una nuova, magari meno violenta, relazione di potere, articolata per esempio nel rapporto di scambio tra nuovi medicinali e servizi aperti. Al contrario, la strategia del movimento psichiatrico radicale italiano degli anni ‘70 fu quella di distruggere l’istituzione in maniera tale che la deistituzionalizzazione del manicomio fosse parte di una più ampia critica alla medicina e alla razionalità dello stato sociale.
“Con l’ospedale alle spalle, non vale”, mi ha detto di recente Alessandro Saullo, psichiatra della nuova generazione, mentre mi spiegava la logica della distruzione di allora: la salute mentale non può funzionare come pratica di emancipazione finché l’ospedale psichiatrico si mantiene come una minaccia di disciplina per le persone in difficoltà. Il percorso della guarigione non può essere solo un percorso di cura: è un viaggio di emancipazione, di appropriazione dei luoghi e degli oggetti della vita come terreni autonomi per la produzione di nuove relazioni sociali, sia dentro che fuori dall’istituzione, possibile unicamente tramite il sistema del welfare e, allo stesso tempo, all’interno delle dinamiche aperte della vita urbana. Mariagrazia Giannichedda (2015) riassume questo sforzo come la capacità del sistema sanitario pubblico - cioè dello stato- di sostenere la libertà costitutivamente difficile della vita urbana. C’è in ballo il processo di soggettivazione come opposizione alla oggettivazione istituzionale delle persone in difficoltà, ma anche in quanto politica delle cose, ovvero coinvolgimento attivo degli oggetti nel tentativo di arricchire le vite che sono state ridotte a mere esistenze: rompendo le serrature, smantellando le reti di contenzione dei letti, scegliendo un arredamento adatto ai luoghi in cui le persone vivono, e in generale pensando politicamente ai luoghi e agli oggetti della vita.
Questo processo di emancipazione comportò non solo una trasformazione culturale e una lotta politica, ma anche una disobbedienza collettiva alle leggi esistenti e la produzione di una nuova giurisprudenza che riconoscesse i diritti sociali, civili e politici delle persone rinchiuse nel manicomio. E sebbene la legge del 1978 proibisse l’istituzionalizzazione, l’applicazione della riforma è avvenuta in maniera disomogenea per tutti gli anni ‘80 e ‘90. L’ultimo manicomio italiano chiuse ufficialmente nel 1999, ma le pratiche e i protocolli che hanno come obiettivo dichiarato quello di aiutare le persone in difficoltà costituiscono, in buona parte del paese, ancora un problema.
Dopo la morte di Basaglia nel 1980, la radicalità di questi processi fu ricostruita nel lutto e con il forte impegno della sua equipe, e fu tradotta nell’affermazione di una logica urbana della cura. A Trieste, quando il manicomio chiuse nel 1981, la cura era già decentralizzata. I centri in ciascun distretto della città erano aperti ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette: le porte erano aperte; a partire dalla fine degli anni ‘80 furono messe in piedi decine di cooperative sociali grazie anche al supporto del Dipartimento di Salute Mentale che garantiva borse di formazione, budget comunitari e altre forme di sostegno economico. Oggi questa ecologia è fatta di appartamenti, servizi di quartiere, meccanismi di integrazione familiare o di supporto alla vita indipendente delle persone con sofferenza mentale. Partendo dalla creazione dei distretti sanitari all’inizio degli anni duemila e dei programmi locali integrati nel 2005, di cui parlerò più avanti, la diffusione della critica basagliana all’interno della pratica medica generale ha trasformato la salute comunitaria e l’ospedale generale, portando da ultimo a provvedimenti normativi come ad esempio la Legge regionale sulla riforma del sistema sanitario del 2014.
Per capire fino in fondo la complessità dell’ecologia della cura, è anche utile comprendere la configurazione soggettiva dei lavoratori e delle lavoratrici nel sistema sanitario pubblico di Trieste. Si tratta di un mondo piuttosto eterogeneo che può essere sintetizzato come segue: a parte i componenti dell’equipe basagliana degli anni ‘70 (oggi in pensione, ma ancora molto attivi), un primo gruppo, con ruoli dirigenziali, proviene dalla lunga traiettoria del movimento basagliano. Alcuni mantengono un impegno politico dentro il sistema sanitario e di cura, altri invece si concentrano sullo sviluppo di pratiche di cura radicali ma disciplinari, in ambito psichiatrico e non solo. Un secondo gruppo si è formato grazie a carriere strettamente professionali ed è molto distante dall’etica del movimento basagliano. Un terzo, più giovane e più piccolo degli altri due gruppi, è stato attratto a Trieste dall’eredità basagliana, e lavora in servizi sperimentali della salute mentale e di territorio. Allo stesso tempo, le cooperative sociali, sviluppatesi attorno ai temi della cura, coinvolgono oggi centinaia di persone tra assistenti e utenti che hanno spesso un legame affettivo ed etico con il movimento basagliano. La maggior parte della nuova generazione di lavoratori del sistema sanitario (che impiega circa tremila persone) non è cosciente della sua singolarità; molti triestini sono consapevoli dell’eccezionalità del modello di cura locale e dell’eredità basagliana, ma la maggioranza probabilmente no.
La continua reinvenzione basagliana procede su questo terreno incerto, e si costituisce a livello quotidiano tramite l’appropriazione (spesso fallita) degli spazi istituzionali. Il tentativo è quello di mettere fine alla separazione tra gli spazi di cura e la vita sociale, trasferendo la cura fuori dalle istituzioni e in mezzo alla vita della città (“la cura dei luoghi”, invece de “i luoghi di cura” come l’ha definita Ota De Leonardis).
In gioco c’è la fragile possibilità di affermare un diverso senso comune come pratica di attivazione attraverso le istituzioni (un senso comune non nelle sue connotazioni kantiane, ma piuttosto vicino a quello che Christoph Brunner, 2018, chiama “un senso militante”): un senso comune di emancipazione che sia in grado di sostenere una pratica istituente diversa e radicalmente democratica, immersa nelle dinamiche e nelle contraddizioni della vita urbana. E, infine, un senso comune dello stato come luogo di risorse cristallizzate che possono essere utilizzate per sostenere “il comune”, nell’accezione del termine proposta da Hardt e Negri. Dice Franco Rotelli: “E se ricreassimo questi punti di incontro, questa nuova alleanza, tra le istituzioni designate e le persone? Potremmo veramente immaginare che i cittadini si costituiscano come coloro che hanno il diritto alla cura, e che questa cura sia una responsabilità della città: una città che cura ogni suo singolo cittadino e che, facendo così, costituisce la cittadinanza e si costituisce come città” (2019)
Questo senso comune risponde al rischio di rimanere incastrati nelle difficoltà della vita sociale, per riprendere le parole con cui Nic Beuret (2018) ha meravigliosamente parafrasato Donna Haraway. Propone strumenti per spostare le risorse operative dello stato all’interno dei processi ricchi e molteplici della riproduzione sociale. Questo tentativo e il suo fallimento permanente costituiscono il punto di partenza di questo viaggio attraverso le ecologie che curano, nella speranza che i concetti, le materialità, le relazioni e le esperienze aperti dall’esperimento di Trieste possano aiutarci a pensare il presente “nel momento del pericolo” (Benjamin, 2009).
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[1] Ndt: In spagnolo, l’espressione coniata cui-dadania è il risultato della crasi tra i due termini ciudadanía (cittadinanza) e
cuidado (cura)