02 2019
Le ecologie che curano 2 - La soglia, Percezioni, Traduzione
Traduzione di Alisea Neroni
Attraversando l’ecologia della cura
Il filo rosso di questo testo è un’indagine delle ambivalenze di un’ecologia più che istituzionale di pratiche, conoscenze, oggetti, relazioni. Un’ecologia che vive al limite tra la società e lo stato, che prova a connettere tra loro modi ed esperienze differenti di cura istituzionale, ma anche un’ecologia che fa della cura una pratica per stare dentro alle difficoltà, nel mezzo delle complessità della riproduzione sociale.
Questa ecologia si tiene insieme grazie alla giustapposizione di frammenti, concetti, materialità, relazioni ed esperienze, e quindi anche memorie, racconti, animali, oggetti, piante, in quanto mondi sociali che interagiscono tra loro. Comincerò elencando i frammenti che uso in questo testo per schematizzare il sistema di reciprocità e conflitti, mutazioni e composizioni, che è l’ecologia della cura.
Il mio punto di partenza è la soglia, il luogo dove inizio ad esplorare la singolarità di questo esperimento istituzionale di cura; in secondo luogo, svolgo un’analisi delle percezioni come guida operativa nell’invenzione di pratiche istituzionali alternative; nel terzo frammento invece esploro lo spazio della traduzione come pratica per rapportarmi criticamente, dal mio punto di vista, con l’abilità di questa ecologia di proporre una diversa interpretazione della riproduzione istituzionale. Nel quarto, propongo il catalogo come una serie di pratiche, che presento qui come una critica affermativa della tendenza delle istituzioni a cristallizzare le procedure, e una fuga dalla stessa; nel quinto, di conseguenza, analizzo la transizione come pratica per contrastare la cristallizzazione e diretta a far proliferare e mutare le pratiche critiche istituzionali nell’incontro con la città. Nel sesto frammento poi esamino la pratica dell’impresa, con cui intendo qui l’atipico movimento delle cooperative sociali di Trieste, inteso come invenzione del comune situata sul margine fragile e ambiguo che separa il settore pubblico da quello privato; nel settimo, dentro questa ecologia materiale, compost diventa l’allegoria concreta per la ricomposizione della cura a Trieste. Infine, mi occupo della pratica della rivendicazione come un modo per rapportarsi con la cura, all’interno della riproduzione sociale di un mondo danneggiato[1].
La soglia
Il primo punto di accesso alla complessa ecologia di Trieste è un programma specifico che opera all’interno del sistema sanitario generale. Lo attraverserò dialogando con le voci e le pratiche di chi quotidianamente vi lavora; allo stesso modo, i miei pensieri e le mie riflessioni sul programma di cura locale integrata (e sulle ecologie che curano in generale) si fondano su una collaborazione continua con Margherita Bono, che lavora proprio nel Programma Microarea e che negli ultimi anni ha portato avanti progetti di ricerca-azione per ripensarne il funzionamento. La mia analisi si concentra qui su un elemento distintivo delle ecologie che curano, ovvero il modo in cui le cose possono andare diversamente quando le pratiche istituzionali siedono sul margine, o sulla soglia, che separa lo stato dalla società, invece che essere proiettate dall’alto sulla vita sociale.
Esploro queste soglie tracciando delle linee di fuga. Una fuga dalla logica dello stato e verso una logica della cura, da una struttura istituzionale e chiusa verso un sistema urbano e aperto; una pratica fatta di elementi contraddittori che cerca di dar senso non alle realtà circostanti, ma insieme a queste, come ha proposto Isabell Lorey nel suo contributo al progetto Entrare Fuori. Un’istituzione che esce allo scoperto, lasciando i propri territori sicuri e perdendosi (Newey, 2019) nella realtà a volte insensata che sta fuori dalle mura dell’ospedale o della sala visite. Ma anche, una fuga dalla realtà etnografica: utilizzerò una serie di narrative che volano via dai fatti ed esplorano lo spazio dell’immaginazione.
Il Programma Microarea consiste in un insieme di interventi in diversi spazi urbani fragili di Trieste, dove vengono intrecciati programmi di salute, servizi sociali, politiche abitative, allo scopo di coinvolgere le reti sociali locali nel disegno di politiche pubbliche di cura in questi luoghi. Ogni Microarea si prende cura di una popolazione di circa 2000 persone, ma è anche uno spazio: un piccolo appartamento, normalmente al piano terra, dove prendono vita una serie di attività collettive di carattere sociale e culturale, e anche servizi come visite a domicilio, controlli sanitari, eventi di salute pubblica e così via. Lo spazio è aperto cinque o sei giorni alla settimana; il nucleo centrale del gruppo di lavoro della Microarea è composto da un gruppo che va dalle tre alle sei persone e che lavora su diversi programmi; ma anche da volontari che si occupano di una serie di attività che non sono un mandato diretto delle istituzioni pubbliche, e infine un numero variabile di abitanti che organizzano e partecipano alle attività.
Uno degli aspetti più interessanti di questo programma è che la salute non è erogata attraverso regole, doveri, protocolli che inquadrano il cittadino unicamente come l’oggetto a cui vengono fornite risorse, attenzioni, benefici, cioè come un recipiente da riempire. Al contrario, il programma sostiene i cittadini nell’esercizio dei loro diritti, li aiuta a conoscere e usare i dispositivi e le risorse dello stato per ottenere una libertà piena – la stessa difficile libertà, dinamica e conflittuale, della vita urbana descritta da Mariagrazia Giannichedda.
In questo quadro, la storia di cura si costruisce come una narrazione, e si costituisce come uno spazio. Magari riguarda una donna che vive da sola in una piccola casa popolare, con il suo cagnolino. Ogni giorno guarda il mare dal balcone; sta attraversando un periodo difficile, perde piano piano la memoria e l’autonomia. È anziana ed è diventata vedova qualche anno fa. Ha attirato l’attenzione della referente di Microarea grazie alle vecchie signore che raccolgono pettegolezzi passeggiando per il quartiere. L’idea è – con tutte le ambivalenze del caso- che le dicerie possano servire al bene comune. In questa cornice, che si colloca da qualche parte tra il controllo e la cura, le signore hanno scoperto che questa abitante sta perdendo la memoria e sta diventando sempre più fragile.
Così la referente la contatta e inizia ad immaginare quali risorse potrebbero essere attivate per fare fronte alla situazione, sia pensando ai servizi pubblici di welfare da attivare, sia alle reti locali e comunitarie, come per esempio i negozi, da coinvolgere. Per fare questo, la referente si deve confrontare con una serie di ostacoli e norme, autorizzazioni e gerarchie, logiche e principi, per trovare la propria strada con diversi attori, alleati, strumenti, dentro lo stato e dentro la società in senso lato.
L’anziana signora, la chiameremo Feste Puck (Shakespeare, ci ricorda Foucault, 2003, utilizza alcuni attori come punti di accesso ad una prospettiva critica sulla realtà), si rifiuta di avere a che fare con i servizi che la referente le propone, ed è in generale sospettosa nei confronti chiunque lavori nei servizi pubblici. Sostiene di aver visto il suo medico di famiglia rubarle il latte dal frigo; probabilmente lo fa piuttosto spesso, visto che la signora quasi sempre viene alla Microarea per chiedere latte e zucchero.
Ogni giorno la storia si ripete: Feste arriva verso mezzogiorno, quando il pranzo sociale è pronto; chiede un po’ di latte e zucchero e viene invitata ad unirsi al pranzo. Si siede e racconta alla referente come non le permettano mai di far visita al suo ex marito nella clinica dove è in cura. La referente allora le ricorda che lui è morto quasi cinque anni fa; forse Feste dovrebbe andare dal suo medico e chiedergli qualche forma di sostegno permanente. Piange Feste Puck; è consapevole della sua fragilità, ma è spaventata all’idea di essere ospedalizzata. Chi si prenderà cura del suo cane? Potrà mai tornare a casa?
Il suo sospetto sul medico di famiglia che le ruba il latte assume senso tutto d’un tratto. Feste ci propone un’analisi situata dell’ecologia in cui è immersa. Il medico è il custode, o meglio la strettoia che porta verso il sistema di cura nel suo insieme: incarna tutte le ambivalenze contenute nel concetto di essere presi in cura. Normalmente, la cura comporta una limitazione della propria autonomia: trasferirsi in una casa di riposo e perdere il proprio cane, abbandonare la propria piccola casa e quei pochi legami che si hanno nel quartiere. E poi, penso mentre Feste piange ricordandosi di suo marito, non sai se potrai guardare il mare al mattino mentre bevi un caffè, nella casa di riposo. Alla fine forse non è poi così importante se qualcuno di tanto in tanto ti ruba un po’ di zucchero. È ancora casa tua e il tuo quartiere.
Percezioni
Un vécu, un vissuto dalla fine del mondo, per dirla con Francesc Tosquelles (1986, cf. Foucault 2003), Feste Puck è ben consapevole di come le istituzioni tendano a togliere potere al cittadino in rapporto all’organizzazione della cura. Per cambiare questa tendenza, il linguaggio delle istituzioni, “la langue de la tête” come la chiama Tosquelles, deve spostarsi e cominciare un dialogo con “i luoghi delle percezioni”. In questo dialogo “quello che conta non è la testa ma sono i piedi: sapere dove metti i piedi. I piedi sono i grandi interpreti del mondo” (Tosquelles, 2012). In questo senso, l’ecologia della cura si compone nelle percezioni situate create da tutti i piedi che interpretano la città, che la producono in quanto opera comune.
Lefebvre contrappone questo approccio ecologico della percezione all’imposizione ideologica della politica: “Le politiche pubbliche subordinano la realtà ad un sistema strategico di significazioni” che sottraggono a buona parte della popolazione della città la capacità di utilizzare gli spazi pubblici; nonostante ciò, i residenti di un luogo costituiscono la città in quanto ecologia raccogliendo e trasmettendo le proprie percezioni, e componendo così la vita sociale (1996). Consapevole dell’antagonismo tra astrazione istituzionale e pratica sociale, e in continuità con la critica fatta coi piedi da Feste, Federico Rotelli, medico di distretto, spiega la logica della deistituzionalizzazione in un opuscolo scritto con l’obiettivo di difendere il sistema sanitario di Trieste da possibili riforme:
“Quando [compaiono le patologie croniche], la tendenza del sistema sanitario è quella di istituzionalizzare la persona (in una casa di riposo, un ospizio, o una residenza sanitaria). Questo dà forma sostanziale alla dicotomia malattia-esclusione/salute-comunità. Ma far restare la persona a casa, anche se è malata o disabile, permette di sostenere la sua dignità personale e le relazioni affettive, mantenendo al contempo una concezione culturale della malattia e della morte come eventi che sono parte naturale della vita”.
Sebbene Feste Puck e Federico Rotelli abbiano trascorsi diversi, entrambi cercano di istituire politiche situate a partire dalle percezioni, considerando gli effetti concreti che le pratiche istituzionali hanno sulla vita della società (Mitchell, 1999), e agendo di conseguenza.
La Microarea viene fuori dunque come un’ecologia di prossimità, per usare l’espressione di Andrea Ghelfi. Una vicinanza delle politiche della cura all’ecologia aperta della città, dove la pratica della cura è co-creatrice del tessuto urbano. Nel nostro viaggio immaginario, la vita reale intorno a Feste è complicata, e la referente deve fronteggiare situazioni difficili: le risorse che era pronta ad attivare non possono funzionare in questo contesto, considerate le preoccupazioni di Feste, e deve per forza inventarsi qualcos’altro. Comincia invitandola a diverse attività nella Microarea; una volta che si riesce a costruire uno spazio in comune e dopo lunghe trattative, la referente riesce ad ottenere che Feste accetti di farsi vistare, promettendole che non sarà ospedalizzata a meno che non sia strettamente necessario, e garantendole sempre l’ultima parola. L’oggetto dell’accordo non è l’aspetto formale di questa libertà: costituzionalmente Feste avrà sempre il diritto di rifiutare un trattamento medico o sanitario, ma la referente sottolinea questo concetto, dicendole che anche lei, attrice istituzionalmente riconosciuta all’interno dell’ecologia della cura, la sosterrà nell’esercizio di ogni suo diritto, anche quando un medico o un assistente sociale insisterà per farle fare qualcosa ‘per il suo bene’.
In questa ecologia, la realizzazione della cura avviene sulla soglia, al limite tra lo stato e la società, o tra il lavoratore e il cittadino; è un dispositivo che destituisce e istituisce le norme della cura. Monica Ghiretti, referente della Microarea di Ponziana, spiega durante un workshop che in questo programma “non ci sono barriere che limitano l’accesso: il servizio è lì, i luoghi sono lì per essere abitati”. Nel Programma Microarea le frontiere istituzionali sono concretamente messe in discussione attraverso lo sconfinamento di quelle soglie che lo stato costituisce.
Invece di rassegnarsi a un sistema che lascia il cittadino solo di fronte alle potenti forze della burocrazia, il lavoro di Microarea aiuta a creare, intorno e con il cittadino, un’etica collettiva basata sulla reciprocità, la responsabilità, l’inclusione.
La referente chiama i servizi sociali domiciliari, o meglio, una persona specifica che forse saprà trovare una soluzione; è questa persona a metterla in contatto con i giovani del “servizio solidale”, studenti e studentesse delle superiori che ricevono una piccola borsa municipale per partecipare alle reti locali di mutuo appoggio. Incontreranno Feste per capire come poterla aiutare; allo stesso tempo la rete dei negozi del quartiere può consegnarle la spesa, e la referente parla con le persone che gestiscono l’orto lì vicino: ogni settimana porteranno a Feste una cassetta di frutta e verdura e le daranno un’occhiata. La referente stessa le fa visita ogni settimana, e così fanno i ragazzi e le ragazze del servizio solidale. Anche la ‘squadra dei pettegolezzi’ di tanto in tanto le bussa alla porta. A volte si raggiunge una soluzione, e la situazione si stabilizza; altre volte, invece, l’impatto dell’istituzionalizzazione è troppo forte, e lo sforzo per sostenere il diritto alla salute nella vita urbana fallisce.
La storia di Feste Puck mette questo articolo – questa pratica di produzione di conoscenza – di fronte alla prima contraddizione: quella tra affabulazione e verità. Se sono pochi gli studiosi critici che hanno ancora l’obiettivo di trovare la verità, sono ancora meno quelli che si sentirebbero a loro agio se i loro interlocutori (o partecipanti o informatori, come qualcuno li chiama) dicessero loro, come è accaduto a me: “su Trieste racconti delle favole”. Il dubbio sorge: quanto lontano può andare l’immaginazione quando si racconta una storia? Qual è il ruolo dell’affabulazione nella costruzione di un’immaginazione concreta di una pratica sociale e politica? Spero che i frammenti che presento in questo testo ci possano avvicinare alla risposta a queste domande.
La storia immaginaria di Feste Puck potrebbe finire in molti modi, così tanti che potremmo diventare matti cercando di immaginare le possibilità: lo sforzo di sostenere la sua difficile libertà potrebbe avere successo per un periodo più o meno lungo; potrebbe finire per aver bisogno di una casa di cura, oppure, al contrario, verrà organizzato un sistema per sostenerla; o forse verrà ospedalizzata. In questo caso, la Microarea si prenderà cura del suo cagnolino, Billy, (o Billy Boo, come lo ribattezzeranno quelli che se ne prenderanno cura). Chissà, forse Feste Puck diventerà lei stessa Billy Boo, lei diverrà il suo compagno per sfuggire all’istituzionalizzazione. Chi sa?
Quello che conta qui non è tanto quale di queste storie sia vera – tutte potrebbero esserlo – quanto il fatto che ciascuna di esse contenga frammenti di verità contraddittorie e ambivalenti, fatte di perdita, dolore, fragilità. Feste Puck e Billy Boo ci permettono di giocare con la nostra immaginazione: ci raccontano di mondi veri che non sempre sono reali. E qui viene in aiuto la definizione di verità data da Paulo Freire (2018): “la parola vera è quella che cambia il mondo”. La verità dunque è una pratica pedagogica che lotta contro l’astrazione istituzionale, quella che fa della vita un insieme di protocolli. La verità non descrive il mondo com’è, ma prende parte al mondo e lo rifà ogni giorno, da capo. Questa prospettiva ci permette di sfuggire al doppio vincolo: da una parte, un inferno realistico neoliberale e, dall’altra, un’utopia romantica di qualcosa che non è mai accaduto e mai accadrà (cfr. Echeverrìa, 2000). E invece noi, con i piedi nella Microarea, possiamo affermare che l’organizzazione sociale della cura in carico allo stato può fare le cose diversamente: può sostenere una vita diversa nella città. Può immaginare un’ecologia che cura.
Traduzione
La Microarea è dunque la soglia dove può cominciare un processo che incorpori una diversa logica nelle dinamiche dei servizi pubblici; questo accade quando la distribuzione della cura viene deistituzionalizzata, attraverso l’emancipazione di tutte le persone realmente coinvolte, ciascuna dalla propria posizione, nel progetto di cura. Questo incontro tra attori e conoscenze è mediato da uno sforzo di dislocamento, dalle ‘politiche della traduzione’ come cercherò di chiarire più avanti in questo frammento.
Pensare alla cura in quanto ecologia ci permette di riconoscere che “la reciprocità della cura raramente è bilaterale: il tessuto vivo della cura non si mantiene grazie a individui che danno e ricevono una controparte. Ma grazie a una forza collettiva disseminata” (de la Bellacasa, 2017). In senso simile a quello proposto da Maria Puig de la Bellacasa, i processi aperti nell’esperimento della Microarea offuscano il limite artificiale tra la società e lo stato, e contestano il confine che separa gli individui dalla dimensione sociale della malattia e del disagio, o, più precisamente, di tutto ciò che è contenuto nella parola ‘problema’. Quando la logica della soglia viene messa in pratica, il processo di cura smette di riguardare la singola persona e diventa un’ecologia delle cose, delle pratiche, e degli affetti, trasformando così il limite istituzionale in una frontiera aperta.
Per tornare a Isabel Lorey, la pratica del curare insieme “si basa su una accumulazione di conoscenze, sulla contezza delle situazioni sociali delle persone che hanno bisogno di sostegno, ed è per questa ragione che è importante essere consapevoli delle tendenze di controllo e di sorveglianza, e costruire insieme una modalità comune che permetta a ogni persona di riprendere il controllo della propria vita, dentro al quartiere, dentro (nuove) relazioni nel territorio urbano” (2019).
La prossimità della Microarea alla vita di tutti i giorni accompagna l’introduzione di pratiche deistituzionalizzanti negli interstizi dello stato. La stessa storia che abbiamo appena raccontato deve essere dunque inserita all’interno del funzionamento dello stato. Le istituzioni e le procedure entrano in gioco, ma stavolta tradotte all’esterno delle proprie logiche e all’interno della vita sociale.
La referente fa da mediatrice con il Centro di Salute Mentale per pianificare meccanismi di sostegno per Feste; si organizza con il Distretto Sanitario per le visite a domicilio; si accorda con la compagnia elettrica e con l’Azienda Territoriale di Edilizia Residenziale per ottenere un supporto nel pagamento delle bollette e per la soluzione di altri problemi burocratici. L’assemblaggio di programmi, spazi e attori diventa un’ecologia attraverso cui chi lavora nel pubblico e il cittadino si battono insieme per i diritti. Il ruolo del lavoratore pubblico è quello di condividere conoscenze che permettano ai cittadini e alle cittadine di avere pieno accesso ai propri diritti, ma anche quello di scuotere lo stato affinché riconfiguri il funzionamento dell’istituzione in funzione delle singole vite.
La trasformazione della pratica istituzionale in una frontiera aperta, una soglia, è cruciale nella traiettoria basagliana. Lo smantellamento del manicomio negli anni ‘70 ha creato lo spazio per l’affermazione urbana di un sistema di salute mentale che mette continuamente a rischio l’istituzione (e i suoi attori), rompendo le serrature, le recinzioni, le catene, e aprendo centri nei quartieri sulle ventiquattr’ore, creando le cooperative sociali, così come meccanismi di sostegno economico e reti di volontari.
La distruzione del manicomio come luogo, sostiene Franco Basaglia (2005), è il limite che bisogna abitare per produrre un altro spazio, insieme a tutti gli agenti attivi nel progetto di cura e presenti nella città. Non basta abolire formalmente le recinzioni, bisogna distruggerle. La deistituzionalizzazione radicale dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste è stata una pratica di violenza, un’appropriazione del rischio dell’incidente da parte di coloro a cui la capacità di agire, e di prendere responsabilità delle proprie azioni, era stata negata, internata nel regno della “forza delle cose” (Gramsci, 1971).
Ma sfondare il muro del manicomio per costruire luoghi istituzionali sempre aperti non significava solo distruggere l’istituzione psichiatrica. Significava spezzare l’istituzionalizzazione della vita portata avanti dalla salute come sistema, e dalla medicina come sapere. Una volta che i muri sono crollati bisogna affrontare il problema della gestione: come possiamo fare di questa libertà qualcosa di duraturo e sostenibile? Commentando la lettera di dimissioni di Frantz Fanon da un dipartimento di salute mentale algerino, Franco Basaglia afferma che in un momento in cui la rivoluzione politica è “per ovvie ragioni” impossibile, “siamo costretti a gestire un’istituzione che neghiamo” (2005).
Questa ambivalenza riguarda anche la referente che cerca di progettare una ecologia della cura per Feste Puck, ma grazie alla trasformazione istituzionale basagliana si confronta con un sistema mimico invece che rigido. Un sistema che prova a destituirsi e istituirsi ogni giorno, come fosse una forza trasversale e trasformativa: una pratica istituente, nei termini proposti da Gerald Raunig (2009).
Questa tensione tra distruzione e invenzione è uno degli elementi che hanno portato Irene R. Newey, infermiera e ricercatrice di Madrid, a Trieste, in un Dicembre appena iniziato e già preda della Bora e dei mercatini di Natale. Sta aiutando a progettare pratiche di salute comunitaria per il Comune di Madrid, e si trova a Trieste per conoscere le pratiche istituenti che continuano ad accadere qui. Io invece faccio da accompagnatore e traduttore, nel tentativo, non sempre efficace, di rendere la mia ricerca utile agli spazi in cui da tempo sono coinvolto, a volte proponendo concetti, altre costruendo ponti con altri lavoratori e lavoratrici della salute nel resto d’Europa.
In questo modo scopro la traduzione in quanto pratica di ricerca, come metodo che mi permette di ascoltare conversazioni che non avrei altrimenti sentito e, quando interpreto la voce di Irene, di porre domande che non avrei mai immaginato. La traduzione mi permette di sparire come una marionetta ventriloqua nelle narrazioni e nelle conversazioni, di esplorare il regno delle politiche impercettibili che accadono sotto la superficie dei discorsi.
“Ascoltate le storie”, ci dice Franco in una conversazione informale, “e cercate di afferrare come ognuna di queste sia condivisa” quando cristallizza le memorie in una narrativa “e, allo stesso tempo, estremamente differenziata” dal momento che ognuno la guarda dal proprio punto di vista. “A quale storia dobbiamo credere?” chiedo. “A nessuna delle due”, risponde Franco. “Dovremmo provare a trasformare la memoria in una critica del presente invece che in una storia sul passato, e mettere insieme questi sguardi in una sfida comune per tenere aperto il presente e inventare nuovi modi di azione. Anche se continuiamo a fallire”.
Con questo a mente, io e Irene ci perdiamo nel sistema e incontriamo attori e attrici diversi che fanno tanti mestieri. Quelli nel Programma Microarea ci spiegano come vedono le cose dal loro punto di vista, vicino alla vita urbana; i medici e gli amministrativi del Distretto Sanitario, dove la reinvenzione delle istituzioni è sistematica invece che artigianale, ci dicono la loro prospettiva; e così fanno quelli nel pronto soccorso di salute mentale nell’ospedale generale, dove l’inerzia della psichiatria tradizionale tenta in continuazione di chiudere le porte aperte, e di reistituzionalizzare le pratiche di cura in nome dell’urgenza e dell’eccezione.
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[1] Ho fatto parte dell’ecologia della cura di Trieste per molti anni e attraverso ruoli diversi. Sono arrivato la prima volta nel 2014 come ricercatore del Ministero della Salute Pubblica della Repubblica dell’Ecuador, e ho partecipato ad un workshop intensivo insieme ad una delegazione di psichiatri dalla Cina. In quell’occasione incontrai Giovanna Del Giudice; tornai qualche mese dopo, nel 2015, e cominciai a collaborare con Giovanna e con la Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo “Franco Basaglia”; nel frattempo, ho anche organizzato una serie di dibattiti e workshop a Barcellona, con Radio Nikosia. Nel 2016 ho trascorso a Trieste la primavera e le prime settimane estive, con il supporto finanziario della Fondazione Rosa Luxemburg e sotto la guida di Isabell Lorey, sviluppando una cornice di ricerca azione al Centro di Salute Mentale di Domio, con il Gruppo di Peer Support e la salute “in comune” nei quartieri di Ponziana e Zindis. Successivamente, in collaborazione con Marta Malo, Marta Perez, e Irene R. Newey, abbiamo dato vita a Entrare Fuori, un dialogo tra lavoratori e lavoratrici del settore sociale, della cura, e della salute mentale e attivisti e attiviste europei, realizzato in collaborazione con l’Azienda Sanitaria di Trieste e il Comune di Madrid, e con il sostegno anche economico del Museo Nazionale Centro delle Arti Reina Sofia. Allo stesso tempo, con un gruppo di lavoratori e lavoratrici di Trieste tra cui Margherita Bono, Paola Comuzzi, Michela Degrassi, Sari Massiotta, Monica Ghiretti, Federico Rotelli, Federica Sardiello, Alfio Stefanich e Davide Vidrih e con il sostegno della Kent Law School, dell’Università del Kent, abbiamo iniziato a collaborare con il programma di salute comunitaria Well Communities di Londra. Negli ultimi anni poi sono state realizzate delle collaborazioni più piccole con la Cooperativa Sociale La Collina, Radio Fragola Gorizia, il Dipartimento di Salute Mentale sia di Trieste che di Gorizia, con la Cooperativa Sociale Agricola Monte San Pantaleone, e con molti altri individui e gruppi a Trieste e nei suoi dintorni. I miei pensieri sull’ecologia della cura hanno preso forma dentro questi spazi di discussione, insieme ad altre pratiche, punti di vista, domande che nascevano nell’ambito di gruppi come Entrare Fuori in Spagna, il Progetto Vessel a Bari, il Radical Psychiatry Network a Nottingham, In Spite of Everything ad Atene, il Raum Station a Zurigo, la Casa Azul a Malaga, la Kent Law School, la School of Political Sciences a Kassel, la School of Art di Zurigo, e la School of Managment a Leicester (così come altre conferenze accademiche): di certo non sono state le istituzioni ma le persone che le abitavano a dare forma a queste riflessioni, e indispensabili sono state anche le numerose chiacchierate, le notti e gli incontri. Martha Schulman è stata non solo l’editrice di questo testo, ma anche un’amica durante le conversazioni fatte nella revisione, e sono estremamente grato a lei e al suo pungente umorismo. Infine, le discussioni con Alisea Neroni, che ha tradotto questo testo in italiano, sono state un felice incontro che mi ha permesso di rileggere e ripensare queste pagine, quasi straniero, nella mia lingua materna. Questa serie di pratiche, configurazioni e traiettorie costituisce il terreno disordinato che cerco di sintetizzare qui come mio punto di vista su un lavoro complesso, aperto e collettivo che sono le ecologie che curano a Trieste. Fortunatamente per me, incontrare Giovanna nel 2014 ha significato avere a che fare con una serie di voci e aprire uno spazio di conversazione molteplice, critico e plurale, con diverse persone e in luoghi diversi. Sebbene Adam, i due Alessandro, Andrea, Beatrice, Carol, Claudia, Davide, Ecaterina, Elena, Elisa, i due Fabio, Frida, Grazia, Guillermo, Lara, Letizia, Marco, Mario, Michela, Naomi, Nicole, Patricia, Patrick, Pina, Sandro, Valentina e Yulia non siano nominati in queste pagine, sono stati tutti miei interlocutori e interlocutrici in questi anni e hanno fatto da cornice al mio impegno concettuale e materiale con l’ecologia della cura, e hanno reso la mia vita a Trieste dolce e piacevole.