11 2007
Contro la creative class
Immaginate un Millennium People senza Chelsea Marina, metropoli multiculturali senza la radicalità dei conflitti. Immaginate un ceto medio, creativo, in espansione e alla ricerca di riconoscimento, in una società che (fortunatamente, lasciateci aggiungere) riduce il lavoro di fabbrica, ma (purtroppo) ha seppellito la lotta di classe. In questo scenario fantasociologico, a sinistra, nei meandri della composizione tecnica di classe, esistono due immagini dei “lavoratori della conoscenza”. Da una parte, c’è chi li vede come un settore di élite, inequivocabilmente distanti dagli operai e dai “veri” precari, identificati con i lavoratori low wage e low skill. Dall’altra, troviamo chi li esalta come i nuovi soggetti del mutamento, punta avanzata dell’innovazione e alla ricerca di un congruo riconoscimento della propria collocazione nella società. Paradossalmente, entrambe le posizioni – pur con giudizi di valore opposti – convergono sulla lettura della composizione tecnica di classe e sulla sostanziale legittimazione della stratificazione all’interno del mercato del lavoro. Il problema diventa il riconoscimento di diritti per settori di riferimento differenti.
Entrambe le posizioni, inoltre, sottendono quella che potremmo
definire una nuova visione dei ceti medi, che è tradizionalmente un concetto
interamente politico e ideologico. È, cioè, l’individuazione di un gruppo di
stabilizzazione in senso progressivo del sistema capitalistico [1].
Le due immagini politiche, infine, ricalcano le due immagini sociologiche
prevalenti: da un lato quella dei knowledge worker come classe emergente e
ristretta di lavoratori, in un quadro di crescente polarizzazione sociale; dall’altro,
ipotizzano un processo di lineare professionalizzazione, intellettualizzazione
e qualificazione della forza-lavoro [2].
Dei primi – i nostalgici di ciò che le lotte hanno distrutto – non vale la pena
di occuparsi: già lo abbiamo fatto a sufficienza negli ultimi anni, già se ne
sono occupati i conflitti e la fuga di massa dal lavoro salariato. Vale invece
la pena soffermarsi sui secondi, in quanto si tratta di posizioni che trovano
un’ampia convergenza tra liberal e settori di movimento, soprattutto a partire
dalla suggestiva ascesa della classe creativa descritta da Richard Florida [3].
Il problema che ci proponiamo di affrontare, dunque, è una critica alla
creative class che sia radicalmente altro dal “cattivo operaismo” – architrave
della cultura politica di sinistra – intriso di olio, grasso e mani callose.
Il sostantivo classe…
La classe è definita da Florida come un cluster di persone che hanno interessi comuni e tendono a pensare e comportarsi in modo simile. Ma queste similitudini sono determinate principalmente dalla loro funzione economica. Le altre distinzioni e caratterizzazioni vengono di conseguenza. L’elemento peculiare della nostra era, continua Florida, è che le persone si guadagnano da vivere mettendo al lavoro la propria creatività. All’interno della composita categoria di knowledge worker, esiste un’ulteriore stratificazione. Knights, Murray e Willmott sostengono che il concetto di knowledge work serve innanzitutto per nominare i mutamenti nell’organizzazione del lavoro nella direzione di una maggiore intensità di conoscenza. Dunque, più che classificare delle occupazioni determinate, è utile per analizzare il nuovo ruolo assunto dal sapere nell’intero spettro delle attività e delle forme di produzione. Al contempo, i networker vengono indicati come l’avanguardia nei processi di innovazione e di sviluppo dei sistemi organizzativi, sempre più basati sulle tecnologie informatiche e sulla capacità di fare rete a livello globale [4]. Diversamente Florida propone, all’interno della creative class, una distinzione tra il super-creative core – composto di scienziati, ingegneri, docenti universitari, poeti e scrittori, artisti, attori, designer e archietti, insomma quella che definisce la leadership di pensiero della società contemporanea, circa il 12% della forza lavoro – e il 20% di creative professionals, impegnati nei settori high-tech, nei servizi finanziari, nel business management, nelle professioni legali e nel settore della sanità. Il 43% della forza lavoro è impiegata nella service class, mentre un quarto è classificabile nella declinante working class. Questi due strati, sostiene Florida, sono un supporto infrastrutturale dell’economia creativa.
Molte critiche sono state mosse alle tesi di Florida. Paul Maliszewski ne denuncia l’aspetto apologetico, che occulta la precarizzazione e la produzione ideologica dell’economia creativa, e contesta la dimenticanza dei 55 milioni di lavoratori dei servizi che negli Usa puliscono gli scarti della classe creativa [5]. Tali critiche, pur cogliendo alcuni degli aspetti problematici della visione liberal e progressista di Florida, celano spesso una venatura nostalgica per modelli occupazionali messi in crisi dai conflitti di classe, e non solo dalla reazione neoliberale. Più interessante è il tentativo di riconcettualizzazione della categoria di classe di McKenzie Wark. Il teorico australiano, nell’ambizioso tentativo di aggiornare il Manifesto di Marx ed Engels nell’età del “lavoro immateriale”, traccia le nuove linee del conflitto tra classe hacker e classe vettoriale [6]. La classe hacker coincide con i lavoratori immateriali di alto livello, motore dell’innovazione, costretti a vendere la propria capacità di invenzione e astrazione alla classe vettoriale, cioè coloro che possiedono i nuovi mezzi di produzione e monopolizzano l’informazione e gli agenti virali che la trasportano, i vettori appunto. La classe hacker è un soggetto di avanguardia, separata dalla classe operaia e dai contadini, ma attorno a cui si può dar vita ad un processo di alleanze e ricomposizione. Essa trasforma la politica di massa in una politica della molteplicità, dentro la quale tutte le classi possono esprimere la propria virtualità.
L’analisi di Wark – in modo non dissimile dagli studi di Peter Drucker sui knowledge worker – è centrata sulla proprietà. Manca invece un discorso sulle forme di vita e sulla soggettività, sulla precarietà e sui rapporti di sfruttamento. La composizione tecnica coincide per il teorico australiano con la composizione politica. Al di là delle indubbie differenze di impostazione e prospettiva politica, è proprio su questo punto che le analisi di Florida e di Wark convergono: tanto quella creativa quanto quella hacker sono ancora “classe in sé”, e devono diventare “classe per sé”. Devono, in altri termini, acquisire la coscienza di classe, per essere all’altezza del ruolo storico che lo sviluppo capitalistico ha loro assegnato.
… e l’aggettivo creativa
L’identità e la coscienza degli appartenenti alla classe creativa, sostiene Florida, non sono più fondate sul lavoro o sulle istituzioni tradizionali, ma sulla propria creatività. I criteri classici di classificazione dei knowledge worker, basati sul livello di formazione, sul contenuto del lavoro, sulla posizione occupazionale e sull’inquadramento giuridico, sono messi in discussione dall’economista americano. Non vi è, infatti, corrispondenza immediata tra skill e titolo di studio. I percorsi di autovalorizzazione, di mobilità orizzontale all’interno del mercato del lavoro e di autoformazione diventano variabili decisive per acquisire saperi e competenze. Se già da tempo il problema della certificazione delle capacità di tipo contestuale accompagna la letteratura sui lavoratori della conoscenza, è di grande interesse il tentativo di Florida di elaborare nuovi indici per misurare la creatività. Viene quindi proposto un Global Creativity Index, basato su tre T: Tecnologia, Talento e Tolleranza. Le prime due sono abitualmente utilizzate da chi si occupa della crescita economica, ma non così avviene per la terza T, l’indice della tolleranza, che è invece ritenuto da Florida centrale nell’«età creativa». Le differenze sono infatti il motore dello sviluppo economico e della valorizzazione capitalistica. Sulla genealogia del presente, del resto, non sembrano esserci dubbi: nel Dna della classe creativa ci sono i movimenti e le controculture degli anni Sessanta. Proprio per questo lo stesso Florida è terribilmente preoccupato per le politiche liberticide e fondamentaliste dei neocon, materialisticamente edificate su un’attenta lettura della composizione di classe: esse tendono infatti a fomentare il rancore per alternativi, modaioli e gay con l’obiettivo accaparrarsi i consensi proletari delle ampie zone deindustrializzate degli Stati Uniti centrali. Questa politica dei valori, oggi inseguita dalla miseria della sinistra italiana (priva persino di quell’analisi materialistica che la fonda), rischia di mettere in fuga la classe creativa, facendo perdere peso agli Stati Uniti nella competizione globale per i talenti [7].
L’indice della tolleranza è misurata sulla presenza di bohemians e gay. Il teorico militante americano Andrew Ross individua nell’«industrializzazione della Bohemia» l’origine della Silicon Alley, il distretto tecnologico di New York, analizzando così la messa a profitto delle forme di vita, di cooperazione e artistiche, alternative e trasgressive che, negli anni Settanta, si concentravano in particolare nel Lower East Side di Manhattan, diventato negli anni Novanta un bacino di insediamento produttivo delle imprese della net economy [8]. È proprio la ricomposizione delle figure del boheme e del borghese, o per meglio dire l’edulcorazione dei conflitti e dei movimenti dalla propria radicalità, la premessa sine qua non per lo sviluppo della creative class. Tant’è che il modello di organizzazione di impresa diventa quello dei progetti open source, nati per eccedere quei confini della proprietà intellettuale entro cui vengono così ricondotti. Se la creatività, condensata nell’intreccio delle tre T, è basata sul rapporto tra l’uno e i molti, potremmo dire che emerge dalle pagine di Florida il lato oscuro, o meglio la lunga ombra capitalistica della moltitudine: la singolarità assume le sembianze dell’individualismo, l’autovalorizzazione diviene culto dell’edonismo, il comune è trasfigurato nel business imprenditoriale. Nell’incontro tra etica bohemienne ed etica protestante, la controcultura – magari oggi colorata di pink – diventa un bacino di investimento nel proprio capitale umano e un modo per fare soldi. Anzi, è la nuova forma del business nelle città creative, messe in sicurezza e anestetizzate dal conflitto di classe. Questa è la lezione che Florida trae dalla San Francisco Bay, culla della controcultura americana e della Silicon Valley. Dunque, laddove l’etica del lavoro è finita, quando il desiderio di autonomia e l’infedeltà diventano i nuovi tratti comuni della composizione di classe, la creatività assume la forma di una nuova etica del lavoro.
I saperi e la creatività, del resto, appartengono per Florida a una dimensione astorica, caratterizzano l’essere umano in quanto tale. Viene qui occultato il loro carattere storicamente determinato, il loro essere prodotto dell’attività e della cooperazione. Mancano, in altri termini, il lavoro vivo e i rapporti sociali di produzione. Su questo Wark non ha dubbi: la classe vettoriale può ricondurre la produzione di conoscenza entro i limiti della proprietà solo attraverso la produzione artificiale di scarsità, laddove vi sono ricchezza e abbondanza. Proprio quella ricchezza e abbondanza, caratteristica della produzione di saperi, costituiscono l’eccedenza che il capitalismo può tentare di regolare e controllare, ma di cui non si può interamente appropriare. Attenzione, però: ciò non significa la lineare crisi del sistema capitalistico, come André Gorz sembra frettolosamente dedurre [9]. Piuttosto, costituisce la base materiale dell’autonomia del lavoro vivo nel postfordismo. Definisce, al contempo, il campo del conflitto tra la produzione del comune (diversamente da molte retoriche di movimento, è opportuno precisare che il bene comune non esiste in natura, ma è continuamente prodotto dal lavoro vivo e dalla cooperazione sociale) e i tentativi di cattura e appropriazione capitalistica.
Non c’è classe senza lotta di classe
La creative class rischia così di presentarsi come l’ideologia del ceto medio dopo la sua fine, problema politico attorno a cui si arrovellano in un recente libro Massimo Gaggi ed Edoardo Narduzzi [10]. O meglio: se il ceto medio si definiva prevalentemente in negativo, cioè per appartenenza a un gruppo che si distingueva dalla classe operaia e dai capitalisti, incaricandosi di mantenere l’equilibrio sociale, la classe creativa si definisce in positivo, raccogliendo al contempo la funzione politica della middle class. Quello di Florida è una sorta di liberal-marxismo, che distingue tra la struttura economica – non più identificata semplicemente nel lavoro, ma nella messa in produzione della creatività e delle forme di vita – e la sovrastruttura della coscienza della classe creativa, ancora da far emerge. Ciò risponde alla razionalità della storia: l’affermarsi della creative class è infatti per l’economista americano il risultato dell’evoluzione delle forze economiche. Viene proposta una nuova teoria delle due società: non più quella – già nefasta – che divideva i garantiti dai non-garantiti, ma quella che distingue la classe creativa dalla old society.
Quella di Florida è una teoria delle classi imperniata su un’idea nuova – da qui l’interesse che suscita – di modernizzazione. Le cosiddette tre T altro non sono che le condizioni di possibilità attraverso le quali sviluppo, competizione e crescita economica possono imporsi nell’economia globalizzata. La componente critica del suo discorso, compresa la critica al bushismo, si incentra conseguentemente sulla denuncia del ritardo o dell’avversione delle istituzioni politiche ed economiche rispetto alle proprietà salvifiche del “nuovo corso”. Lo sviluppo della classe creativa con il suo pieno riconoscimento, sono ciò a cui il capitale deve guardare per uscire dalle secche della sua crisi di accumulazione. Proprio per questo motivo Florida può vantare la capacità di far coincidere la figura dello studioso progressista con quella di consulente ambito dalle grandi corporation.
Se questo basta a delineare i contorni di un coerente ed innovativo discorso sulla crisi del capitalismo e sulla sua possibile cura, più difficile è capire come l’idea della classe creativa – in quanto elemento politico, non analitico – abbia fatto presa in vari ambiti di movimento. Causa o effetto che siano, ne possiamo vedere i risultati nella tendenza di molte lotte dei precari della creative class a percepire se stesse e a comportarsi come se fossero delle lobby, più attente cioè al riconoscimento del valore del proprio capitale creativo nelle gerarchie del mercato del lavoro, che non alla messa in discussione dei suoi meccanismi di regolazione. Potremmo dirla in altro modo: la creative class evidenzia la schizofrenia del lavoratore postfordista, l’essere cioè al contempo lavoro e capitale – ottimamente descritta da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli nel paradigma del lavoratore autonomo di seconda generazione [11], apologeticamente esaltata da Aldo Bonomi nell’ideologia dell’imprenditore di se stesso, superata da Florida nella fusione tra il bohemian e il borghese. Il problema dei processi di composizione politica di classe nel postfordismo è ora non la ricomposizione della figura giuridica che tiene insieme il datore e il prestatore di lavoro, bensì la scissione.
Le prospettive politiche, dai liberal ad alcuni settori di movimento, hanno un minimo comun denominatore: la riproposizione di un nuovo compromesso sociale dell’economia creativa. Un New Deal globale per Florida, un «welfare low cost» per Gaggi e Narduzzi, un keynesismo post-statale per i sostenitori del cognitariato. Ma tutti espungono dalla propria analisi il fatto che il compromesso sociale era fondato non su generici processi di conflitto, né tanto meno sulla razionalità della ricerca di equilibri progressivi. Era il risultato della lotta di classe. Rifuggendo tanto dall’immagine elitaria dei knowledge worker, quanto dalla nostalgia per i dispositivi di occupazione e garanzia “fordisti”, Andrew Ross individua il nodo politico centrale nella combinazione delle istanze dei soggetti sopra e sotto la «linea» nella gerarchia del lavoro cognitivo. In mancanza di una simile prospettiva, continua il teorico americano, la parte alta si identificherà nell’immagine autoimprenditoriale, quella alle prese con i processi di de-skilling con le sole battaglie bread-and-butter [12]. Ross indica invece nella ricomposizione dei conflitti sulla proprietà intellettuale e sulla distribuzione del reddito il pieno sviluppo di autonomia della cooperazione sociale. Lungo l’articolazione o divaricazione di questa linea si colloca la possibile riarticolazione del concetto di classe nell’età del capitalismo cognitivo [13], in un senso contrario dal dissolversi delle classi ipotizzato da Florida. Ossia, dalla creative class come nuovo ceto medio post-classista.
Le classi, infatti, non sono un fenomeno naturale, né un semplice riflesso della stratificazione del mercato del lavoro. Sono categorie politiche. Se, come afferma Mario Tronti, non c’è classe senza lotta di classe [14], potremmo dire che con la lotta di classe non c’è ceto medio. In altri termini, viene messo in crisi lo spazio di stabilizzazione e mediazione che i gruppi che fanno parte di questo strato, politicamente, rivestono. Lo schema che viene proposto tanto da Florida quanto da Wark, invece, poggia su una separazione netta tra classe in sé e classe per sé, laddove il collegamento tra l’una e l’altra sarebbe unicamente appannaggio di una non meglio specificata azione della coscienza. Questo schema finisce per relegare quella di classe ad una definizione tutta teorica e l’azione politica allo stretto perimetro del riconoscimento di una trasformazione avvenuta nella divisione del lavoro, alla quale però ancora non corrispondono i dovuti diritti. Pensiamo, al contrario, che quello di classe sia un concetto politico in divenire, dato dalle soggettivazioni immanenti al mondo del lavoro che tentano di eccedere i processi di gerarchizzazione e individualizzazione che dovrebbero controllarle e contenerle. Legare oggettivisticamente le stratificazioni della composizione del lavoro alla definizione di classe rischia di naturalizzare i dispostivi di controllo e misura del lavoro vivo trasformando questi ultimi, in semplici aggregati identitari. Il rapporto tra composizione tecnica e composizione politica di classe, deve invece mettere al centro i conflitti, le esperienze di rifiuto ed esodo che già avvengono nel mercato del lavoro. Comprendere come, nell’epoca del lavoro cognitivo, si compongano delle strategie di autovalorizzazione che resistendo ai dispositivi di comando, sfruttamento e segmentazione, costituiscono un campo di composizione delle forze; è in questo campo, definito dalla produzione del comune, che occorre cercare la soggettivazione politica della classe.
Da questo punto di vista, l’idea stessa di “ricomposizione” lascia trasparire l’esistenza di un’originaria unità del lavoro scomposta dalle divisioni operate dal capitalismo. Il problema politico ed analitico che ci troviamo invece di fronte, fuori da qualsiasi immagine meramente teorica, totalizzante e teleologica della classe, è pensare il collegamento tendenziale delle lotte, la loro possibile generalizzazione e potenziamento, la codificazione strategica cioè delle resistenze in atto. La classe in questo senso deve essere pensata come un effetto globale e non come una struttura oggettiva, sociologicamente definita ed identitariamente formata. È al contempo la posta in palio e la condizione di possibilità della lotta.
Lavoro cognitivo, dicevamo. È meglio chiarire: tale categoria non indica per noi un settore egemone, ricalcato sulla lettura della composizione tecnica di classe. Così è stato spesso interpretato il cognitariato. Il lavoro cognitivo è invece la filigrana attraverso cui leggere l’eterogeneità del lavoro vivo postfordista e i nuovi rapporti di sfruttamento. Non implica altresì un lineare processo di intellettualizzazione della forza-lavoro, o dell’espansione progressiva di occupazioni creative. Le dinamiche di déclassement, non a caso, sono state uno dei terreni di battaglia delle recenti lotte di studenti e precari a livello europeo e globale. Cognitivizzazione del lavoro, dunque, significa cognitivizzazione della misura e dello sfruttamento, cognitivizzazione della gerarchia di classe e della regolazione salariale, cognitivizzazione della divisione del lavoro e delle forme di resistenza. La segmentazione e gerarchizzazione interna alla composizione di classe ha innanzitutto una funzione politica. L’impossibile reductio ad unum, l’irrapresentabilità e l’eterogeneità delle nuove figure del lavoro vivo postfordista, il suo essere moltitudine, assumono in Florida la forma dell’homo hœconomicus nell’era creativa, aperto alle differenze nella misura in cui sia stata cancellata la differenza radicale: la differenza di classe. Il problema della composizione politica di classe nel capitalismo cognitivo è invece organizzare la produzione del comune e al contempo le forme della resistenza. Il problema dell’esodo, dunque, ma anche del rifiuto, laddove l’etica creativa è diventata la nuova etica del lavoro. Perché il rifiuto è la condizione di possibilità dell’esodo e dell’autonomia.
Potremmo allora qualificare così la questione del virtuale proposta da McKenzie Wark, in quanto dischiudersi della potenza del presente. Strappandola però a ogni lettura deterministica o di sintesi dialettica, per situarla nel campo tracciato dai conflitti di classe, dai rapporti di forza e dai processi di produzione del comune. Insomma, potremmo dire che le analisi sulla creative class evidenziano con chiarezza il sovrapporsi di vita e lavoro nel capitalismo cognitivo. Con ciò ogni idea nostalgica per le forme di organizzazione del passato di classe è felicemente superata. Dunque, non c’è nessuna possibilità di restaurare la dicotomia, finalmente defunta, tra lavoro produttivo e improduttivo. Il problema di tali analisi è però che ne occultano la funzione interamente politica, cioè l’individuazione e territorializzazione dei rapporti di sfruttamento e dei luoghi della lotta di classe. Si perde, in altri termini, il concetto marxiano di lavoro produttivo non in quanto elemento di distinzione dal lavoro improduttivo, ma come dispositivo teorico di attacco. Nella sua capacità non di descrivere, ma di far male al nemico.
Quali sono allora le officine Putilov del lavoro cognitivo? Se le tre T, come abbiamo visto, sono le condizioni di possibilità dello sviluppo capitalistico, sacre icone della produzione capitalistica del comune, quali sono le condizione di possibilità della sua rottura? Qui il cambiamento della determinazione politica deve avere la forza di mutare anche il segno delle domande della ricerca teorica. Come individuare all’interno della composizione del lavoro vivo la gerarchia politica dei conflitti, la quale – lungi dall’essere il calco sociologico delle gerarchie e segmentazioni del mercato del lavoro – deve esprimere il valore differenziale dei processi di soggettivazione e dei punti di attacco che le fanno saltare? Qui sta il nodo, irrisolto, della composizione politica di classe, che è innanzitutto rifiuto della sua composizione tecnica, in quanto articolazione della forza-lavoro determinata dalla produzione capitalistica del comune e dai rapporti di sfruttamento. In questo snodo centrale si situa il compito del pensiero radicale oggi. Diciamolo meglio: di un punto di vista di classe all’altezza della composizione del lavoro vivo contemporaneo, che non va ricomposto, ma di cui va liberata una potenza fondata sul rapporto tra singolarità e autonoma produzione del comune, laddove nessuna simmetria e rovesciamento dialettico è possibile.
http://www.posseweb.net/spip.php?article8
[1] Salvati, M. (a cura di, 2000), Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli anni trenta, Bruno Mondadori, Milano.
[2] Cfr. Butera, F. – Donati, E. – Cesaria, R. (1997), I lavoratori della conoscenza. Quadri, middle manager e alte professionalità tra professione e organizzazione, Franco Angeli, Milano.
[3] Florida, R. (2003), L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano
[4] Knights, D. – Murray, F. – Willmott, H. (1993), Networking as knowledge work: a study of strategic interorganizational development in the financial services industry, in Journal do Management Studies, v. 30, n. 6.
[5] Maliszewski, P. (2006), Flexibility and Its Discontents, in The Baffler, n. 16.
[6] Wark, M. (2005), Un manifesto hacker. Lavoratori immateriali di tutto il mondo unitevi!, Feltrinelli, Milano.
[7] Florida, R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Mondadori, Milano.
[8] Ross, A. (2003), No-Collar. The Human Workplace and Its Hidden Costs, Basic Books, New York.
[9] Gorz, A. (2003), L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino.
[10] Gaggi, M. – Narduzzi, E. (2006), La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, Torino.
[11] Bologna, S. – Fumagalli, A. (a cura di, 1997), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano.
[12] Ross, A. (2006), Technology and Below-the-Line Labor in the Copyfight over Intellectual Property, in American Quarterly, John Hopkins University Press, n. 58.
[13] Vercellone, C. (a cura di, 2006), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma.
[14] Ci riferiamo qui in particolare alla relazione Sul concetto di classe in Marx tenuta da Mario Tronti nel ciclo seminariale «Lessico marxiano»