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08 2009

Appunti sull'Onda anomala, il g8 dell'università, la repressione e ciò che (presumibilmente) ci attende

Andrea Benino

Durante lo scorso autunno le scuole italiane (dalle elementari alle università) sono state attraversate da un grande movimento di protesta contro le “riforme” promosse dal ministro dell'istruzione del governo Berlusconi Mariastella Gelmini.

Nelle università, in particolare, i mesi tra ottobre e dicembre hanno visto una serie di occupazioni, cortei, blocchi stradali culminati nei tre giorni di incontri e cortei nazionali tenutisi a Roma dal 14 al 16 novembre. Qui, in una serie di dibattiti e workshop sui temi della ricerca, della formazione, del lavoro, della didattica e del welfare, l'Onda anomala (questo è il nome che il movimento si è dato) ha tracciato le linee guida della propria visione alternativa dell'università, ma, più in generale, della elaborazione e della trasmissione del sapere. Contro l'immagine di un'università sempre più concepita come una fabbrica di esami e di qualificazione “professionalizzante”, l'Onda, attraverso le pratiche dell'autoformazione e dell'autoriforma, ha fatto sentire la necessità di pensare il sapere come strumento di crescita critica, non asservito e spesso antagonista rispetto a quelle dinamiche che invece vorrebbero la formazione strettamente legata e subordinata alle esigenze del capitale nazionale e internazionale. L'Onda aveva dunque contestato duramente tutte quelle forme di autovalutazione che le università italiane, impegnate in una lotta all'ultimo sangue per ottenere i finanziamenti pubblici, hanno deciso di adottare e che non considerano altri parametri che quelli dell'efficienza produttiva. Su simili basi, infatti, ogni possibilità di elaborazione critica e di crescita personale autonoma vengono cancellate dall'ambito universitario, per lasciare spazio ad una vuota retorica sul merito che non produce altro che conformismo intellettuale e rigidissime modalità di inclusione differenziale all'interno degli atenei, dando origine ad una divisione tra atenei virtuosi e no. Inoltre i pesanti tagli ai finanziamenti che costituiscono il nocciolo della riforma Gelmini, spianano la strada alla trasformazione delle università in fondazioni private, con la conseguente sottomissione totale dell'insegnamento (tanto nei suoi contenuti, quanto nelle sue forme) agli interessi del capitale privato.

A fronte di una simile situazione, la grandezza dei movimenti autunnali è stata senza dubbio quella di tentare (in moltissimi casi con successo) un superamento delle lotte di stampo corporativistico che avevano caratterizzato i movimenti degli ultimi anni (in particolare quello contro le riforme proposte nel 2005 dal ministro dell'istruzione Letizia Moratti), cercando invece di unire le rivendicazioni di quella galassia precaria che rappresenta la linfa vitale delle istituzioni universitarie. Studenti, ricercatori, personale tecnico e amministrativo e, in alcuni casi, anche qualche docente, sono riusciti a dare vita ad un movimento radicale tanto nelle forme di organizzazione, quanto nei contenuti. La critica della riforma scolastica è stata infatti inserita in un più ampio orizzonte di critica del sistema capitalistico attuale e della crisi economica che colpisce in maniera diretta coloro le cui condizioni di vita e di reddito già precarie, vengono rese ancora più incerte attraverso un progressivo indebitamento degli studenti (sul modello universitario anglosassone) e una altrettanto progressiva dequalificazione del loro sapere.

In questo senso gli incontri del cosiddetto g8 dell'università, tenutosi a Torino, hanno catalizzato una risposta decisa e radicale del movimento che molti, dalla parte delle istituzioni, davano per morto.

Sin dal nome che una simile manifestazione ha voluto attribuirsi, risulta evidente il suo legame con le pratiche che hanno portato alla crisi globale, così come risulta evidente lo stretto rapporto che i rettori delle università intendono intrattenere con la valorizzazione capitalista. Le modalità attraverso le quali questi incontri sono stati organizzati mostrano una volta di più come il modello di università che ne sta alla base sia legato a quelle forme aziendalistiche che hanno come unico criterio la valutazione della compatibilità dell'insegnamento universitario con l'organizzazione della produzione capitalistica a livello mondiale.

Gli stessi temi che i rettori si sono trovati a discutere (legami tra università e mondo del lavoro, sostenibilità ambientale) vengono privati di qualsiasi interesse reale dal momento che, escludendo dal dibattito coloro che l'università la vivono e la fanno vivere, non ottengono altro risultato che riprodurre quel modello di governance globale che passa attraverso uno sfruttamento e una precarizzazione sempre più radicale delle esistenze di coloro che producono quella ricchezza sociale che viene poi loro sottratta.

Un simile modo di pensare l'università priva di qualsiasi interesse ogni discorso sulla sostenibilità ambientale o sulla lotta al razzismo e alla discriminazione, dal momento che sono quegli stessi modelli organizzativi che l'università assume come propri a produrre precarietà, esclusione, inquinamento: in una parola a produrre quella crisi generalizzata nella quale ci troviamo oggi a vivere.

L'Onda ha colto dunque l'occasione di questi incontri tra i rettori delle università di eccellenza degli otto paesi più industrializzati, ai quali si sono aggiunti i rettori di università di altre parti del mondo, per rilanciare la propria protesta e per far sentire ancora una volta la propria voce alternativa, che parla di una riappropriazione dei tempi, dei contenuti e delle modalità di produzione, di trasmissione e di valutazione del sapere.

L'appuntamento di Torino ha assunto le caratteristiche di un grande incontro internazionale durato tre giorni e conclusosi, martedì 19 maggio, con una imponente manifestazione.

Gli incontri e i dibattiti organizzati per questi tre giorni avrebbero dovuto tenersi a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche dell'università di Torino, tuttavia, per impedire agli studenti di esprimere il proprio punto di vista sul g8 e sui suoi contenuti, il rettore dell'università di Torino Ezio Pellizzetti ha proclamato, la sera del 16 maggio, la serrata di Palazzo Nuovo dal 17 al 19. La motivazione ufficiale di una simile scelta consisteva nella paura (ampiamente fomentata dai mezzi di informazione nei giorni precedenti) di scontri e violenze che avrebbero avuto come quartiere generale la sede universitaria. Tuttavia, il programma di questi tre giorni era esplicito e pubblico già da tempo: dibattiti, presentazioni di libri, mostre, proiezioni avrebbero dovuto preparare al corteo di martedì 19, corteo che era mosso dalla volontà di far sentire il proprio dissenso nei confronti del g8, ma che non aveva tra i suoi obiettivi la devastazione generalizzata del centro cittadino che i mezzi di informazione insistevano ad attribuirgli.

Di fronte alla provocazione del rettore la risposta degli studenti è stata quella di occupare il Palazzetto Aldo Moro (adiacente a Palazzo Nuovo), facendo così rivivere quel grande esperimento di autogestione e di condivisione che già aveva caratterizzato il movimento dell'autunno. In questo modo i primi due giorni sono stati caratterizzati da un dibattito sulle trasformazioni del ruolo della conoscenza nell'ambito del capitalismo mondializzato, al quale hanno partecipato alcuni animatori del progetto edu-factory, da un incontro con i rappresentanti dei movimenti “no tav”, “no dal molin” e “no discarica” (movimenti attivi sul territorio nazionale per combattere contro “grandi opere” di distruzione dell'ambiente, delle risorse e della salute comuni) e, infine, da un confronto con studenti greci, spagnoli e francesi sulle lotte che nell'autunno hanno attraversato questi paesi. Inoltre, durante queste prime due giornate sono state fatte alcune azioni di blocco metropolitano, alle quali la polizia ha risposto con cariche intimidatorie.

Infine, martedì 19 maggio, il corteo nazionale ha mostrato quella che da molte parti è stata definita l'“Onda perfetta”: 10000 persone hanno preso parte ad un corteo che, attraversando la città, è andato a colpire con azioni simboliche i responsabili dell'attuale crisi mondiale (banche, agenzie del lavoro interinale) e si è concluso di fronte all'ingente cordone di forze dell'ordine schierate a protezione di quella che a tutti gli effetti appariva come una zona rossa (in pieno stile g8!). Qui, come annunciato nei giorni precedenti, gli studenti non hanno sciolto il corteo, ma sono avanzati fino ad arrivare a contatto con le forze dell'ordine, a dimostrazione del fatto che le intimidazioni e i limiti imposti alla mobilità e all'espressione non venivano in nessun modo accettati. A quel punto le conseguenze erano prevedibili, ma difficilmente si sarebbe potuto sperare in una risposta migliore da parte dell'Onda: alle cariche della polizia gli studenti hanno risposto organizzandosi, lanciando sassi, resistendo senza disperdersi e proteggendo il lento e ordinato ripiegamento del corteo che, dopo circa un quarto d'ora di battaglia, ha ripreso le vie del centro ritornando verso Palazzo Nuovo dove un'assemblea pubblica ha concluso tre giorni di mobilitazione straordinaria, per radicalità, qualità dei contenuti e partecipazione.

Ad una simile manifestazione di vitalità – come prevedibile – il governo, la magistratura e le forze dell'ordine hanno voluto rispondere in maniera tanto dura quanto, nei fatti, scomposta. La mattina del 6 luglio una spettacolare azione di polizia su scala nazionale (denominata “Rewind”) ha portato 21 protagonisti della tre giorni di Torino in galera o agli arresti domiciliari. Dodici nella sola Torino, gli altri a Padova, Bologna e Napoli. Si è trattato di un'azione che va analizzata con attenzione perché è chiaramente indicativa del legame trasversale che attraversa tutte le forze politiche istituzionali e dell'incapacità del governo di rispondere alle questioni sollevate dagli studenti (ma più in generale dai movimenti sociali) in altri modi che con la repressione.

L'impianto accusatorio che ha portato a emettere le misure restrittive per i 21 compagni (la maggior parte dei quali studenti e studentesse al primo o al secondo anno, incensurati e senza esperienze politiche precedenti a quelle dell'autunno) è stato ordito dal procuratore di Torino Caselli, cioè da una figura feticcio di quel giustizialismo forcaiolo e “democratico” che piace alla sinistra istituzionale italiana.

Caselli si è fatto le ossa nella repressione dei movimenti degli anni settanta, ha costruito la sua dubbia fama nella lotta alla mafia (che evidentemente non ha prodotto risultati troppo brillanti) e ora si trova a guidare l'offensiva contro l'Onda. È interessante soffermarsi su ciò che Caselli stesso ha dichiarato all'indomani dell'operazione di polizia: non si sarebbe trattato di misure volte a colpire il dissenso o la libertà di protestare e manifestare, ma della semplice necessità di proteggere gli studenti “buoni” (cioè quelli che rispettano la forma democratica anche nella protesta) da quelli “cattivi” (i trecento paramilitari pronti a tutto – sono parole del procuratore – che avrebbero trasformato un legittimo corteo in una inaudita manifestazione di cieca violenza). È evidente, in un simile discorso, la volontà di spezzare il movimento, creando divisioni poliziesche e cancellando quella determinazione che il corteo nel suo complesso, tanto nell'azione quanto nelle assemblee nazionali preparatorie, aveva espresso e praticato.

La risposta a un simile attacco è stata immediata: in tutta Italia si sono susseguite manifestazioni, blocchi, occupazioni di rettorati e sedi universitarie e così via (a Torino la sera di venerdì 10 luglio un corteo al quale hanno partecipato più di 2000 persone ha attraversato il centro cittadino). Dopo due settimane, il 20 luglio, l'impianto del teorema Caselli vacilla pericolosamente: tutti coloro che si trovavano in cella sono stati liberati, così come quelli che erano agli arresti domiciliari: due compagni restano agli arresti domiciliari (Luca e Marco), per tutti gli altri c'è l'obbligo di firma o di residenza.

Tuttavia, al di là della cronaca, ciò che interessa è sottolineare alcuni elementi che, in prospettiva, devono essere tenuti presenti per una valutazione politica degli avvenimenti di quest'anno.

In primo luogo è evidentemente come l'operazione poliziesca ha avuto uno scopo propagandistico e intimidatorio: la spettacolarità dell'azione ha infatti mostrato l'efficienza delle forze dell'ordine, mentre gli arresti sono esplicitamente serviti a tenere il più possibile lontani dall'Aquila e dal “vero” g8 gruppi e militanti che avrebbero potuto dare vita a giornate e mobilitazioni di protesta.

In secondo luogo appare chiaro che andare a colpire giovani e giovanissimi militanti ha come scopo quello di tentare di porre un freno alla partecipazione e all'entusiasmo di coloro che hanno animato il movimento dell'Onda e che, naturalmente, saranno in prima fila anche nel prossimo autunno. Non dobbiamo infatti dimenticare che la crisi economica morde sempre più a fondo nel tessuto sociale (a settembre finirà la cassa integrazione per molti lavoratori ed è chiaro che molte piccole imprese chiuderanno definitivamente), così come gli effetti della “riforma” Gelmini iniziano a mostrare i primi effetti (lunedì 6 luglio – il giorno stesso degli arresti – il senato accademico dell'università di Torino ha votato un aumento delle tasse per il prossimo anno accademico).[1]   

Infine, più in generale, la manovra repressiva organizzata da Caselli ha mostrato la logica con la quale si intende gestire un autunno che già da ora si promette particolarmente infuocato: tutto ciò che non obbedisce alla logica della protesta “civile” e “democratica” deve venir considerato come “mutante” (ancora una volta il termine è del solerte procuratore Caselli), come un'infiltrazione, una provocazione, un atto (reale o potenziale, poco importa dal momento che queste distinzioni filosofico-speculative sembrano trovare poco spazio nelle argomentazioni dei procuratori) di terrorismo.

Ecco perché, pur nella sua drammaticità, che ha tolto e continua a limitare la libertà di 21 persone, l'operazione “Rewind” mostra, dietro ai muscoli sfoggiati con tanta solerzia, una grande debolezza di fondo: la debolezza di chi sa che l'autunno che verrà non sarà certo dolce o mite, ma attraversato da potenti e radicali conflitti. Ecco perché, infine, anche la sinistra istituzionale non ha speso una sola parola sugli arresti, ma ha anzi messo avanti un suo uomo-copertina (il democratico Caselli) in un'operazione che dimostra, una volta di più, la scollatura radicale e insanabile tra ceto politico (di qualunque colore) e movimenti sociali.

Nonostante tutto, quindi, il bilancio che bisogna trarre da questi mesi di lotta è positivo: non solo il movimento dell'autunno gode di piena salute, ma ha anche saputo radicalizzare le proprie modalità di riappropriazione degli spazi metropolitani, mettendo in campo una grande capacità di organizzazione e una altrettanto notevole forza d'urto. Si è tentati di tirare in ballo il famoso ritornello del vecchio Schmitt: oggi, dopo l'operazione “Rewind” la divisione amico/nemico appare più chiara che mai e l'Onda, i lavoratori che patiscono la crisi, i migranti che soffrono il razzismo istituzionale di questo paese, i precari che tirano avanti tra mille difficoltà, da che parte stare lo sanno bene.      


Per ulteriori info e approfondimenti:
infoaut.org
uniriot.org

 



[1]    È necessario fare una breve digressione di carattere tecnico che, forse, può aiutare a capire meglio quale è la situazione dell'università pubblica italiana oggi. Esiste una legge secondo la quale le tasse pagate dagli studenti non possono superare il 20%  del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) che ogni università riceve dallo Stato. Questo tetto del 20% negli ultimi anni è stato superato sistematicamente dalla maggior parte degli atenei italiani, e naturalmente un aumento delle tasse non può che estendere ancora di più questa situazione. A questo punto soltanto la malafede può giustificare la mancata comprensione di quello che è il destino delle università (e degli studenti): di fronte ad una generalizzata situazione di “illegalità” da parte degli atenei di tutta Italia è facile prevedere che la legge di cui sopra verrà ritenuta priva di senso e quindi (più o meno ufficialmente) abrogata. La più logica conseguenza sarà dunque un aumento senza limite delle rette universitarie e la virtuale sparizione dell'università pubblica a favore di fondazioni private, università di eccellenza eccetera.