05 2007
Note su edu-factory e capitalismo cognitivo
Traduzione: edu-factory collective
Vorremo socializzare alcune riflessioni su due concetti centrali della discussione: edu-factory e capitalismo cognitivo. Quanto al primo, condividiamo il punto chiave della prospettiva di edu-factory: le università sono luoghi importanti della lotta di classe, e non solo in Europa e in Nord America. Il sostegno del CAFA (Committee for Academic Freedom in Africa) alle lotte nelle università africane ha seguito le medesime analisi e prospettive. Queste lotte hanno espresso il rifiuto a che il capitale internazionale: decida le condizioni di lavoro; si appropri della ricchezza investita in istituzioni per cui la gente ha pagato; sopprima la democratizzazione e la politicizzazione della formazione cresciuta negli anni Ottanta e Novanta. In generale, come dovremmo opporci alla chiusura delle fabbriche in cui gli operai hanno lottato per controllare il proprio lavoro e il salario così dovremmo resistere allo smantellamento dell’istruzione pubblica, sebbene le scuole siano anche strumenti del dominio di classe e di alienazione. Questa è una contraddizione cui non possiamo sfuggire. Se lottiamo sui temi della formazione, della salute, della casa ecc., è illusorio pensare di poterci porre al di fuori dei rapporti capitalistici. Come i movimenti studenteschi in giro per il mondo hanno dimostrato, le università non sono degli asili per i leader delle elite neoliberali, bensì un terreno di dibattito, di contestazione delle politiche istituzionali, di riappropriazione delle risorse.
È attraverso questi dibattiti, lotte e processi di riappropriazione, connettendo i conflitti nei campus con le battaglie in altri luoghi della fabbrica sociale, che creiamo pratiche alternative di formazione. In Italia, ad esempio, con il contratto del 1974 i metalmeccanici hanno conquistato 150 ore di studi pagati all’anno: in questo modo, insieme agli insegnanti, la maggior parte proveniente dal movimento degli studenti, hanno organizzato dei corsi per analizzare l’organizzazione capitalistica del lavoro, anche sui loro posti di lavoro. Negli Stati Uniti fin dagli anni Sessanta i campus sono stati tra i luoghi centrali del movimento contro la guerra, producendo ricche analisi sul complesso militare-industriale e sul ruolo delle università. In Africa, le università sono state i centri di resistenza agli aggiustamenti strutturali. Questa è una delle ragioni per cui la Banca Mondiale è stata entusiasta di smantellarle.
La lotta nella fabbrica del sapere è oggi particolarmente importante per il ruolo strategico della conoscenza nel sistema produttivo, in un contesto in cui la recinzione del sapere (la sua privatizzazione, mercificazione ed espropriazione attraverso i regimi della proprietà intellettuale) è un pilastro della ristrutturazione economica. Dobbiamo tuttavia stare attenti a non sovrastimarne l’importanza, e/o usare il concetto di edu-factory per tracciare nuove gerarchie rispetto al lavoro e alle forme di accumulazione capitalistica.
Questa preoccupazione nasce dall’uso che è stato fatto del concetto di «capitalismo cognitivo». È vero, abbiamo bisogno di identificare le forme guida dell’accumulazione capitalistica nelle sue differenti fasi e la loro «tendenza» ad egemonizzare (sebbene non ad omogeneizzare) altre forme di produzione capitalistica. Ma non dovremmo accantonare le critiche della teoria marxiana sviluppate dal movimento anti-coloniale e da quello femminista, che hanno mostrato come l’accumulazione capitalistica sia prosperata proprio attraverso la capacità di organizzare simultaneamente sviluppo e sottosviluppo, lavoro salariato e non, produzione ai più alti livelli di know-how tecnologico e ai livelli più bassi. In altri termini, non dovremmo dimenticare che è precisamente attraverso queste disparità, le divisioni create all’interno della classe operaia e la capacità di trasferire ricchezza da un polo all’altro che l’accumulazione capitalistica si è espansa a fronte di tante lotte.
Ci sono varie questioni che non possiamo affrontare in queste note. Vogliamo qui concentrarci soprattutto sulle implicazioni politiche dell’uso della nozione di «capitalismo cognitivo». Ma prima alcuni punti di discussione. In primo luogo, la storia del capitalismo dovrebbe averci mostrato che la sussunzione di tutte le forme di produzione non richiede l’estensione del livello scientifico e tecnologico raggiunto in un particolare punto dello sviluppo a tutti i lavoratori che contribuiscono al processo di accumulazione. Gli schiavi della piantagione che raccoglievano il cotone negli anni Cinquanta dell’Ottocento nel Sud degli Stati Uniti non lavorano al livello del know-how tecnologico presente nelle fabbriche tessili nel Nord, sebbene il loro prodotto fosse vitale per quelle stesse fabbriche. Ciò significa che gli schiavi del Sud erano lavoratori industriali o, viceversa, che i salariati del Nord erano lavoratori della piantagione? In modo analogo, ai nostri giorni il capitalismo non ha meccanizzato il lavoro di casa, sebbene il lavoro domestico non pagato delle donne sia stato una risorsa chiave dell’accumulazione capitalistica.
Tutto ciò ci suggerisce che il lavoro può essere organizzato per l’accumulazione capitalistica e lungo le sue linee senza che i lavoratori siano al livello medio della conoscenza tecnologico-scientifica applicata ai punti più alti della produzione. Ci suggerisce anche che la logica capitalistica può essere compresa solo guardando alla totalità dei suoi rapporti, e non solo ai punti più alti del suo avanzamento. Il capitalismo ha sistematicamente e strategicamente prodotto disparità attraverso la divisione del lavoro, internazionale e sessuale-razziale, e attraverso il «sottosviluppo» di particolari settori della produzione; queste disparità non sono state cancellate, ma al contrario approfondite dalla crescente integrazione di scienza e tecnologia nel processo produttivo. È il caso della maggioranza degli africani che non hanno accesso a Internet né al telefono, o dell’analfabetismo – specialmente tra le donne – cresciuto esponenzialmente dagli anni Settanta a oggi. In altre parole, un salto in avanti per molti lavoratori è stato accompagnato da un salto indietro di molti altri.
In secondo luogo, ancora più importanti sono le implicazioni politiche di un uso di «capitalismo cognitivo» e «lavoro cognitivo» che metta in ombra la perdurante importanza di altre forme di lavoro che contribuiscono al processo di accumulazione. Privilegiando una specie di lavoro (e perciò di lavoratori) in quanto più produttivo, più avanzato e paradigmatico, si corre il pericolo di creare una nuova gerarchia delle lotte, impegnandosi in forme di militanza che precludono la ricomposizione di classe. Un altro rischio è di sbagliare ad anticipare i movimenti strategici da cui il capitalismo può ristrutturare il processo di accumulazione, avvantaggiandosi delle ineguaglianze interne alla forza lavoro globale. È esemplare come si è realizzata l’ultima ondata di globalizzazione.
Riguardo al pericolo di ricalcare le gerarchie del lavoro create dall’estensione dei rapporti capitalistici, possiamo imparare molto dal passato. Come la storia della lotta di classe dimostra, privilegiare un settore di lavoratori è la strada più sicura per la sconfitta. Non c’è dubbio che certi tipi di lavoratori abbiano giocato un ruolo cruciale in epoche precise dello sviluppo capitalistico. Ma la working class ha pagato un prezzo molto alto alla logica che stabilisce gerarchie di soggetti rivoluzionari modellate sulle gerarchie dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Così si è perso il potere rivoluzionario dei contadini o l’immenso lavoro domestico fatto per produrre e riprodurre l’operaio industriale. Il grosso «iceberg» del lavoro nel capitalismo (per usare la metafora di Maria Mies) è stato reso invisibile dalla tendenza a guardare alla punta dell’’iceberg, il lavoro industriale appunto. Ironicamente, nel regime del capitalismo industriale e del lavoro di fabbrica, sono stati i movimenti contadini di Messico, Cina, Cuba, Vietnam e in gran parte della stessa Russia che hanno condotto le rivoluzioni del XX secolo. Allo stesso modo negli anni Sessanta l’impeto della trasformazione a livello globale è arrivato dalla lotta anticoloniale, comprendendo anche la battaglia contro l’Apartheid e per il Black Power negli Stati Uniti. Oggi sono i popoli indigeni, i campesinos e i disoccupati di Messico (dal Chiapas a Oaxaca), Bolivia, Ecuador, Brasile e Venezuela, i contadini indiani, i lavoratori della maquilladora ai confini degli Stati Uniti, i lavoratori immigrati negli USA che stanno conducendo le lotte più «avanzate» contro l’estensione dei rapporti capitalistici.
Per essere chiari: non vogliamo minimizzare l’importanza delle lotte nella fabbrica del sapere e le forme in cui Internet ha portato alla creazione di nuovi tipi di commons centrali nei nostri conflitti; temiamo piuttosto di ripetere errori che isolerebbero definitivamente chi lavora e lotta in questi network. Da questo punto di vista, pensiamo che il movimento «no-global» (con tutte le sue difficoltà) sia stato un passaggio in avanti nella capacità di articolare domande e forme di attivismo globali. Per rendere possibile la «ricomposizione» politica abbiamo bisogno di osservare la continuità dei conflitti attraverso la differenza dei luoghi nella divisione internazionale del lavoro. Assumere che la ricomposizione della forza lavoro si sta già dando perché il lavoro si sta omogeneizzando – attraverso un processo da alcuni definito del «divenire comune del lavoro» – non ci aiuta. Non possiamo pensare che ogni lavoro diventi «cognitivo», producendo arbitrarie equazioni sociali e offuscando la comprensione di cosa c’è di nuovo nel «lavoro cognitivo». È arbitrario, ad esempio, assimilare sotto l’etichetta del «cognitivo» l’attività di una lavoratrice domestica – immigrata o no, moglie, madre, sorella o salariata – a quella di un programmatore o di un artista, dopo di che suggerire l’aspetto cognitivo del lavoro domestico è qualcosa di nuovo. Certamente quello domestico, come ogni forma di lavoro riproduttivo, ha una forte componente cognitiva (la cura dei bambini e degli anziani, la gestione e l'organizzazione della casa e della vita in famiglia). Ma quando guardiamo al vasto universo di pratiche che costituisce il lavoro riproduttivo vediamo i limiti dell’applicazione di una tipologia basata sul computer e sul know-how tecnologico. La conoscenza necessaria al lavoro riproduttivo può certamente trarre beneficio da Internet (assumendo che ci siano tempo e soldi per farlo), ma è un tipo di sapere che gli esseri umani, in particolare le donne, hanno sviluppato in un lungo periodo, conformemente ma anche contro i requisiti dell’organizzazione capitalistica del lavoro.
Dovremmo aggiungere che non si guadagna nulla aggiungendo il lavoro domestico al nuovo regno del lavoro cognitivo, ridefinendolo come «lavoro affettivo». Per cominciare, dovremmo evitare formule che implichino una separazione tra ragione ed emozione, tra corpo e mente in ogni tipo di lavoro. Inoltre, rimpiazzando la nozione di «lavoro riproduttivo», come è usata dal movimento femminista, con quella di «lavoro affettivo» può veramente servire ad assimilare, sotto l’etichetta del «cognitivo», l’attività di una lavoratrice domestica (se immigrata o no, se moglie, sorella, madre o salariata) o di una sex worker all’attività di un programmatore o di un'artista? Cosa c’è di veramente «comune» nei loro lavori? Cos’è comune, ad esempio, tra un maschio programmatore di computer o un artista o un insegnante ed una donna lavoratrice domestica che, in aggiunta al lavoro salariato, deve spendere molte ore non pagate per prendersi cura dei membri della sua famiglia?
Ancora più cruciale, se il lavoro contenuto nella riproduzione degli esseri umani – ancora un’immensa parte del lavoro speso nella società capitalistica – è «cognitivo», nel senso che produce non cose ma «modi di essere», allora cosa c’è di nuovo nel lavoro cognitivo? Cosa si guadagna ad assimilare tutte le forme di lavoro – anche come tendenza – sotto un’etichetta se non il rischio che alcune specie di lavoro e la problematica politica che generano scompaiano?
Non è il caso di dire che, affermando che il lavoro domestico è «lavoro cognitivo», abbiamo ancora una volta sbagliato nell’indirizzare la questione della svalutazione di questo lavoro nella società capitalistica, del suo status in gran parte non pagato, delle gerarchie di genere che vi sono costruite sopra e attraverso le relazioni salariali? Non dovremmo invece domandare che tipo di organizzazione va pensata affinché le lavoratrici domestiche ed i programmatori di computer possano andare insieme?
Prendere il lavoro riproduttivo come uno standard serve anche alla questione della prevalente assunzione che la cognitivizzazione del lavoro, nel senso della sua computerizzazione e riorganizzazione attraverso Internet – ha effetti emancipativi. Una voluminosa letteratura femminista ha messo in discussione l’idea che l’industrializzazione di molti aspetti del lavoro domestico ne abbia ridotto il peso per le donne, mostrando, al contrario che l’industrializzazione ha accresciuto la gamma di ciò che è considerato socialmente necessario nel lavoro di casa.
Per concludere, nozioni come «lavoro cognitivo» e «capitalismo cognitivo» dovrebbero essere usati comprendendo che rappresentano una parte, foss’anche egemone, dello sviluppo capitalistico; le differenti forme di conoscenza e lavoro cognitivo esistenti non possono essere appiattite in un’unica etichetta. L’utilità di simili concetti dovrebbe essere di identificare ciò che è nuovo nell’accumulazione capitalistica e lottare contro ciò che è perso. Ciò che è perso è il fatto che, lungi dal divenire comune del lavoro, ogni mutazione nello sviluppo capitalistico tende ad approfondire le divisioni di classe, e finché queste divisioni esistono possono essere utilizzate per riorganizzare il capitale su basi differenti e distruggere il terreno su cui i movimenti sono cresciuti.