Cookies disclaimer

Our site saves small pieces of text information (cookies) on your device in order to keep sessions open and for statistical purposes. These statistics aren't shared with any third-party company. You can disable the usage of cookies by changing the settings of your browser. By browsing our website without changing the browser settings you grant us permission to store that information on your device.

I agree

07 2013

Traduzione: un esperimento di soggettività

Arat

Il pensiero del pensiero, tutta una tradizione ancor più ampia della
filosofia ci ha insegnato che esso ci conduceva alla più profonda
interiorità. La parola della parola ci guida attraverso la letteratura, ma
forse anche attraverso altri cammini, a questo fuori in cui si dissolve il
soggetto che parla. E probabilmente per tale ragione che la riflessione
occidentale ha cosi a lungo esitato a pensare l'essere del linguaggio: come
se avesse presentito il pericolo che l'esperienza nuda del linguaggio
avrebbe rappresentato per l'evidenza dell' "io sono".

OULIPO, Ouvroir de littérature potentielle, o officina della letteratura potenziale, fondato in Francia nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais, fu un gruppo di scrittori che applicavano rigide formule alla produzione letteraria. Ispirati alla matematica, o a una forma di aritmomania, i membri di OULIPO imponevano regole rigide alla scrittura: queste regole erano per loro un’impalcatura con cui costruire il contenuto, il soggetto, della letteratura. Tale impalcatura poteva assumere varie forme: equazioni, schacchiere, cruciverba, lipogrammi, variazioni di stile, convenzioni metriche, modalità narrative. Ma queste strutture o costrizioni, anche definiti ‘giochi pubblici’, non povevano essere ovvi e spesso nei testi non se ne rintraccia traccia. Ad esempio, nonostante la miriade di complessi strati di costrizioni autoimposte da George Perec sul romanzo La vita: istruzioni per l’uso, la trama non risulta mai frammentaria, i personaggi mai forzati, le scene mai aliene. Il Pantano di Raymond Queneau, inteso come traduzione del Discorso sul metodo di Cartesio, non contiene alcun discernibile riferimento a quest’opera. Queneau stesso una volta disse dell’impalcatura: “sarebbe orribile se si vedesse”.
    Queneau, un disertore del movimento surrealista, descrisse i membri dell’OULIPO come “ratti che costruiscono il labirinto dal quale cercheranno di scappare”. Un labirinto che  sprona la creatività, o un tipo particolare di creatività, dedita a una data forma tanto quanto a un contenuto, se non di più. Gli OULIPO sperimentavano con i limiti, che ritenevano potenziali trasgressioni, esercizi alla scoperta delle regole che potrebbero governare eccezioni. Contro la “scrittura automatica” dei surrealisti, non vedevano nell’inconscio chiave alcuna alla rivelazione poetica. Il linguaggio per loro era sistema, ma un sistema impossibile, e, come hackers, giocavano il sistema perchè per loro la creazione poteva solo darsi all’interno delle possibilità combinatorie permesse dal linguaggio.

E se le costrizioni si applicassero al contento piuttosto che alla forma? Se le regole che governano il testo fossero stabilite dal significato e dalla storia che racconta? Se il soggetto del testo fosse l’impalcatura piuttosto che l’edificio? Se così fosse, si approccerebbero le condizioni in cui opera la traduzione.

L’idea di traduzione come atto creativo non convince molti. I traduttori sono segretari, tecnici, macchinisti del linguaggio, e come tali son riconosciuti da corpi professionali, censi di stato, contratti delle case editrici, e dalla forma salario. Però, questa cittadinanza di seconda classe, questa creatività vincolata, accorda loro la possibilità di sperimentare con la soggettività. Ed è questa la cosa più interessante, e piacevole, della traduzione. Come?

L’anonimità dell’atto di traduzione dichiara sprezzo per l’autorità di “paternità” letterarie, authorship, genio individuale e autenticità. In quanto lavoro di ricreazione e ripetizione, l’atto di traduzione espone la socialità del discorso. L’invisibilità dell’atto di traduzione fa del testo il vero protagonista e ne crea il linguaggio come persona. Inavvertibile ed incospicuo, il linguaggio che la traduzione produce è una maschera la cui taglia deve esser esatta senza bisogno di adattamenti: il traduttore è un sarto e un  cucitore, non di abiti ma di pelli. La soggettività prodotta dalla ed attraverso la traduzione è anonima ed invisibile, ma anche non identitaria, posizionata in maniera trasversale, se non oltre, le comunità linguistiche che sono spesso la moneta di scambio degli stati nazioni e la colla delle loro identità immaginate. Ma le “culture” che le lingue posson demarcare non sono che uno degli elementi con cui l’atto di traduzione deve confrontarsi; una costrizione, eppur trascurabile. Se non altro, proprio per la capacità di intrattenere due “culture” o “identità”, nella forma di due lingue, in una testa, contemporaneamente, il traduttore dimostra quanto è flebile questo allineamento ed alleanza strategica della lingua con la cultura e l’identità, e quanto, dopotutto, le loro amate e iperprotette corrispondenze siano arbitrarie, artificiali e potenzialmente ridontanti. Nonostante cio’, per descrivere la soggettività coinvolta negli atti di traduzione si ricorre alle metafore ed euristiche di patria ed estero. Ma nonostante sia inscatolato dal mercato del lavoro e la sua fabbrica dell’educazione con etichette di natività, originalità, maternità e fonte; seppur marchiato dalla nascita, il traduttore è in realtà un orfano, in patria solo se straniero, a casa solo se in trasferta. Estraneo al testo, estraneo al suo autore, estraneo ai lettori immaginari oltre i confini che autore e testo potrebbero potenzialmente toccare. Senza tale estraneità, senza tale apertura, una qualsivoglia sussuzione del testo a predizioni di successo o fallimento sarà visibilmente traduzione. E non sarebbe orribile se si vedesse?

La traduzione è un atto di slealtà e infedeltà al compito di costruire la nazione. Al traduttore, l’estraneità e lo straniamento è familiare e famigliare. E per quanto sia necessaria una relazione simbiotica col testo, tale intimità intellettuale richiede una sorta di distanza senza distacco, un’affinità senza endorsement o controfirma: nell’anonimo rendere del testo in un altra lingua, il traduttore non si impegna a divenire autore in un atto di ventriloquismo, ma a trattare il testo non tradotto come un personaggio in cerca d’ autore, nello sforzo di farlo parlare per sè di sè.

L’atto di traduzione è sostanzialmente inautentico ma non comporta tradimenti. Si potrebbe solo parlare di tradimento se l’autenticità implicasse la verità in quanto rappresentazione. Senza indulgere in discussioni su se la verità esista, se esista in quanto rappresentazione, o se possa esistere esclusivamente in quanto rappresentazione, nella traduzione, al livello della relazione tra testo e autorialità, la verità non può mai rappresentare. Il linguaggio distrugge questa possibilità e la traduzione lo rende  semplicemente più evidente.

Così, la soggettività prodotta nell’atto di traduzione è anche fondamentalmente ambigua. Si ha ambiguità quando “punti di vista alternativi possono assumersi senza letture completamente scorrette”, e la traduzione richiede una sorta di anamorfosi linguistica. Si è costretti a porre in questione, nella traduzione, proprio la possibilità di autenticità e tradimenti della stessa. Ma anche questo livello di inautenticità è trascurabile. Più di rilievo, forse, è che ciò rispetto a cui l’atto di traduzione è inautentico è l’autenticità che si intende come transparenza o traslucenza della coscienza, come esser “veri a sè stessi”,  di cui ciò che la traduzione sovverte, più che il termine “vero”, è il termine “sè”.  “Dimenticare sè stessi  è essere illuminati da una miriade di cose”.

Perchè la soggettività implicata nell’atto di traduzione è proiettata moltitudinalmente, dove la moltitudine non è meramente una collettività di alcuni sè, un tutto in quanto somma delle proprie parti che siano individuali o singolari, ma piuttosto una collettività dentro il sè, un’implosione del sè come non identico o anti identico, che minaccia l’identità al livello della possibilità del suo desiderio. Contro l’auto-identicità nello spazio e nel tempo, la traduzione espande il testo spazialmente posizionandolo geograficamente altrove, e lo lancia in un tempo differente, con una seconda nascita, in un altro presente.

Eterotopìa.

La soggettività in gioco nell’atto di traduzione è anonima, invisibile, straniera, inautentica, ambigua, moltitudinale, eterotopica, e forse, in quanto esperimento con la soggettività, come la letteratura OULIPO, la traduzione fa parte della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie.

Si ringraziano:

William Empson, Sette tipi di ambiguità
Michel Foucault, Il pensiero del fuori
George Perec, La vita: istruzioni per l’uso
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore
Raymond Queneau, Morale élémentaire
Dogen Zenji, GenjoKoan